EUROPA

Eutanasia. Politico, non etico, il conflitto acceso dalla Chiesa in Italia

ZUFFA GRAZIA,

«Non è eutanasia», precisa il professor Wasserfallen, responsabile del «Progetto suicidio assistito» del Policlinico universitario del Canton Vaud, a Losanna, a proposito della pratica di fornire i farmaci necessari ai pazienti che hanno espresso il desiderio di una «morte dignitosa» (Eleonora Martini, manifesto/Europa, 25 febbraio). No, il suicidio assistito non è altro che eutanasia, poiché «in entrambi i casi siamo di fronte a un atto che intende porre fine a una vita», ribatte Ignazio R. Marino, commentando nella stessa pagina la pratica svizzera.
Dunque, il dissidio è sul filo della concettualizzazione di ciò che è eutanasia e di ciò che non lo è: pur con giudizi diversi sul suicidio assistito, ambedue prendono le distanze dal termine eutanasia. Il primo sotto l'aspetto giuridico, poiché l'eutanasia non è prevista nella legge svizzera, il secondo soprattutto sotto l'aspetto «etico», quale premessa all'intervento legislativo.
Veniamo al distinguo del professor Wasserfallen: apprezzo il pragmatismo elvetico, che si sforza di aderire a nuovi bisogni e sensibilità sociali, «praticando» nuove risposte entro le normative vigenti (interpretate in modo duttile e intelligente), prima ancora di cambiare la legge. Per di più, valorizzare le pratiche, prima della codifica normativa, evita, o almeno contrasta, lo scontro ideologico, e favorisce mediazioni politiche accettabili e accettate. E' la via già seguita per altri temi che riguardano la salute, come i trattamenti con eroina per i tossicodipendenti. Anche in questo caso, sono stati agitati molti argomenti che oggi risuonano nel dibattito sul fine vita: primo fra tutti l'accusa di «abbandono» dei malati e di divorzio dall'etica solidaristica.
Certo, va considerata la storia della Confederazione elvetica, dove convivono, insieme a diverse lingue, culture e religioni differenti, col presupposto implicito che nessuna prevarichi l'altra, pena la tenuta sociale e politica della Confederazione stessa. Per non parlare del complicato rapporto fra autonomia cantonale e competenze centrali. Guardando alla Svizzera, con un occhio rivolto all'Italia: un Cardinal Ruini, che per i Dico fissa l'agenda del Parlamento e dà parere sugli emendamenti al disegno di legge governativo, non avrebbe la cittadinanza elvetica. E non a caso la Conferenza episcopale svizzera si muove diversamente: nel 1997 appoggiò pubblicamente i trattamenti con eroina come aiuto per i più deboli, le stesse cure bollate pochi mesi prima da Roma come rinunciatarie e antisolidali. Tanto per chiarire che non tanto di etica (e di diritto al magistero della Chiesa) si tratta, quanto di politica.
Così, lo stesso Ruini ha vietato i funerali religiosi a Welby non tanto per rinverdire la morale cattolica sull'inammissibilità del suicidio, quanto, come giustamente osserva Gianfranco Spadaccia (Fuoriluogo, gennaio '07), per ribadire il diritto di veto della Cei sul tema dell'eutanasia, con un imperativo rivolto ai parlamentari cattolici di ambedue gli schieramenti: non solo, si badi bene, a non legiferare, ma anche a non affrontare preliminarmente i quesiti in merito al rifiuto delle cure. Così, la proposta di Bertinotti di avviare una ricognizione sui malati terminali e le pratiche mediche al "limite" con l'eutanasia, è stata, incredibilmente, e senza scandalo, accantonata.
Aldilà dell'analisi politica, la posizione della Chiesa sul caso Welby è interessante nel merito della definizione di ciò che è eutanasia. Sembra cioè che sia proprio la volontà del paziente di morire il discrimine rispetto all'eutanasia: di fronte al quale poco conta che l'origine delle sofferenze presenti sia nell'accanimento tecnologico. Paradossalmente, ma non tanto, una definizione oggettiva dell'accanimento terapeutico, che desse il potere in mano ai medici, a prescindere dalla soggettività del paziente, sembrerebbe più rassicurante. Tale cioè da permettere definizioni generali e assolute: qui sta l'accanimento terapeutico, là l'eutanasia, qui sta il Bene (smettere di curare quando non serve), là sta il Male (porre fine a una vita).
Ma se ci sforza di guardare con gli occhi delle persone che soffrono, il dilemma si presenta così: da un lato, il rifiuto dell'accanimento terapeutico (ovvero interrompere le cure quando queste aumentano, invece di diminuire, la sofferenza, anticipando così la morte); dall'altro, l'eutanasia (ossia porre fine con la morte anticipata a sofferenze divenute insopportabili). Come si vede, le due pratiche, seppur distinte, hanno drammaticamente più punti di contatto che di distanza.
Da qui, due considerazioni. La prima è stata anticipata da Ida Dominijanni (manifesto, 24 dicembre) sulla vicenda dolorosa di Piergiorgio Welby: «Più si invocavano leggi generali sull'accanimento terapeutico, sul rifiuto della cura, sul testamento biologico (confondendoli tra loro), più si rischiava di perdere di vista quella persona, quella domanda di non essere più curato, quelle relazioni con la moglie e la sorella che hanno consentito a lui di affrontare umanamente una situazione ai limiti dell'umana sopportazione». Di più: la ricerca del Bene, come principio assoluto, dietro l'ossessione del ripudio del Male, può stravolgere (ben più che tacitare) la voce di chi soffre. Perché brandire la Vita come una spada, rischia di confinare i renitenti alla guerra nel campo dei paladini della morte. Ma Welby amava la vita, l'ha ripetuto più volte: per lui, il rifiuto delle cosiddette "cure" è stato l'ultimo atto per dare significato a ciò che di vivo restava di sé: la lucidità di mente, la passione e l'impegno civile a favore dei malati come lui. Molti dei quali non sceglieranno la sua via, così come sono pochi i casi di suicidio assistito a Losanna, l'importante è che ciascuno sappia di poter essere ascoltato.
La seconda considerazione è in realtà un invito a guardare in faccia l'ambivalenza della medicina, insieme ai suoi progressi. Il tema del fine vita è ineludibile perché oggi più di ieri il trapasso può diventare un lungo, doloroso percorso verso la morte. L'obiettivo, da tutti condiviso, di allungare la vita può spesso esporre a mali, sofferenze, invalidità: tanto che è sempre più difficile decifrare quale sia la finalità dell'intervento terapeutico, quando la guarigione è preclusa. In una parola, è sempre più arduo discernere quale sia il «bene» del paziente. Soprattutto se si pensa di discernere prescindendo da colui/colei che soffre.

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