LETTERE

Il nostro debito con la compagna Marina

CASTELLINA LUCIANA,

È fastidioso il dovere dei vecchi di rammentare ogni volta i tempi passati. Ma infastidisco ancora una volta perché vorrei che redattori e lettori de il manifesto, che in quegli anni erano bambini, ricordassero assieme a noi anziani Marina Arriola, morta a Città del Messico dove l'aveva portata a vivere da tempo l'esilio. Perché Marina è stata per noi l'incarnazione fisica, umana, di una vicenda che altrimenti ci arrivava soltanto dalle cronache scarse e dalla leggenda: la guerriglia centroamericana.
Marina era bionda e aveva gli occhi verdi, eredità di una madre tedesca, ma gli zigomi larghi e pronunciati come quelli dei maya. Ho sempre pensato che questo contrasto somatico fosse in qualche modo simbolico della contraddizione politica che l'esperienza europea aveva aperto in lei: quando era qui dopo un po' non ci sopportava più, insofferente alle nostre querelles politiche, ai nostri distinguo, che a lei sembravano privilegi di una sinistra che non doveva fare i conti, tutti i giorni, con la durezza della battaglia in Centro America. Ma quando era lì le nostre «sofisticatezze le restavano dentro e via via si irritava con il semplicismo, gli schematismi, il settarismo dei suoi compagni. E anticipava il suo ritorno in Europa.
È stata «pendolare» fra due così diversi modi di essere della sinistra per molto tempo, logorata nel fisico dai disagi della sua missione, e sempre più inquieta perché aveva capito quanto difficile era il dialogo anche fra compagni del Nord e del Sud. Ma credo che quella sua inquietudine, che spesso traduceva in grandi durezze, abbia fatto capire a noi de il manifesto tante cose; e forse qualcosa anche alla sinistra latinoamericana, che avrebbe prima o poi fatto i conti con la politica e non solo con le armi. Noi certamente le dobbiamo molto.

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