SPORT

Vite da stadio. L'identità anonima dell'ultrà proletario

intervista
QUADRELLI EMILIO,

Gli Ultras Tito Cucchiaroni, dopo aver diffuso domenica scorsa, poco prima dell'inizio della partita Sampdoria-Ascoli, un comunicato nel quale sinteticamente ma con molta chiarezza prendevano posizione sulla tragedia di Catania e il decreto Amato che ne è seguito, hanno deciso per il momento di non rilasciare altre dichiarazioni pubbliche. Come ha spiegato un loro rappresentante: «Pensiamo che per un ragionamento più complessivo, su quanto accaduto e sul mondo del calcio nel suo insieme, attualmente non vi siano le condizioni migliori. Il rischio di strumentalizzazioni, travisazioni o per dirla più chiaramente, di operazioni dichiaratamente sporche, al solo scopo di costruire notizie all'insegna del sensazionalismo da parte dei media, è abbastanza elevato. Più in là potremmo riprendere questo discorso. Quello che avevamo da dire lo abbiamo fatto attraverso il nostro comunicato e gli striscioni che abbiamo appeso domenica allo stadio. Per il momento il nostro rapporto con il mondo dell'informazione finisce qui». (Tra questi forse il più esplicito recitava: «I morti vanno tutti rispettati, anche quelli che vi siete dimenticati»).
Una decisione non priva di buon senso visto che la sensazione di vivere accerchiati e sotto assedio non sembra essere il frutto di una qualche paranoia di troppo ma il risultato di una serie di ordini discorsivi che, della stigmatizzazione degli ultrà, ha fatto la sua ragione d'essere come il fiorire di scoop su gran parte dei quotidiani è lì a ricordare. Per certi versi, nei loro confronti, si sta riproducendo un clima non diverso da quello maturato nei confronti dei pit bull qualche tempo fa. Non è escluso che anche nei loro confronti si paventi l'obbligo della museruola e, al posto del guinzaglio, il braccialetto elettronico. Quindi, preso atto del clima, la scelta della «strategia del silenzio» appare in gran parte condivisibile.
Tuttavia anche a Genova, il mondo dei tifosi non si esaurisce all'interno delle strutture maggiormente organizzate e visibili. Accanto a queste è possibile individuarne almeno altre due. La prima, riconducibile all'area Acab («All cops are bastards»), pur minoritaria può vantare un certo consenso, assolutamente traversale tra le varie fedi calcistiche, specialmente nelle fasce giovanili di alcune aree periferiche cittadine. E' quella che ha come unico nemico dichiarato le forze dell'ordine. Esiste, infine, una terza fascia poco appariscente e nota ma dai numeri cospicui che, pur non disdegnando un qualche rapporto con il tifo organizzato, preferisce mantenere una propria autonomia e una certa informalità organizzativa. Si tratta di gruppi a carattere amicale formatisi, in non poche occasioni, sui luoghi di lavoro e nel quartiere. Si tratta di una gioventù operaia e proletaria che, nel tifo e nello stadio, riversa una serie di tensioni, aspettative, immaginari non secondarie. Tifo al limite dell'anonimato ma, forse proprio in virtù di ciò, in grado di raccontarci qualcosa di non banale e secondario sulla realtà del mondo operaio e proletario delle nostre periferie metropolitane. Nell'intervista che segue, con non poca sorpresa, l'attore sociale, un giovane operaio di 22 anni momentaneamente occupato con contratto a termine in una ditta che lavora in appalto per una delle maggiori industrie cittadine, tocca solo marginalmente gli eventi che hanno riportato al centro dell'interesse pubblico il mondo delle tifoserie e racconta un'altra storia, quella di un proletariato giovanile senza storia e identità che, parafrasando Sieyès, considera il tifo e lo stadio, se non tutto, qualcosa.

Tu, pur seguendo costantemente i colori blucerchiati, non sei organico ad alcuna struttura. Con chi vai allo stadio?
Siamo un gruppetto che si conosce fin da piccoli al quale si sono aggiunti altri con i quali abbiamo fatto amicizia sul lavoro. Non ci sono problemi con nessuno ma preferiamo rimanere così, per conto nostro, più autonomi.

Come valuti le iniziative e i messaggi lanciati dagli ultras sampdoriani dopo i fatti di Catania?
Sono abbastanza d'accordo con gli striscioni e con le altre iniziative che gli ultras hanno preso. Se proprio dobbiamo farlo allora, i morti ricordiamoli tutti. Però questa è una cosa che non faranno mai. Ci saranno sempre morti di seria A, di serie B e altri che non hanno neppure una serie. Non è che ci si può fare illusioni. Il mondo del calcio, intendo quelli che hanno in mano il business e lo spettacolo, funziona come tutto il resto e allora quella cosa lì è stata bene dirla sapendo bene che non la faranno mai.

Però, qualcosa di diverso questo mondo deve averlo, se lo segui con tanta passione
Una cosa è la passione per il calcio, per la tua squadra e il mondo dei tifosi, un altro è il mondo del calcio, Biscardi, Moggi, Berlusconi e così via. Noi siamo una cosa, loro un'altra.

È intorno a questo «noi» che dovresti raccontare qualcosa. Qual è la ragione per cui il tifo cattura, a tutti quelli che lo vivono come te, tante forze ed energie?
Perché se no cosa fai? Allo stadio, nel tifo per la mia squadra, ho qualcosa di mio, qualcosa che mi appartiene. Come supporter ho un'esistenza, un'identità senza bisogno di essere vestito in un certo modo, avere una certa auto o far vedere di potermi permettere certe cose. Poi quando divento un tifoso nessuno mi chiede o sta a guardare cosa faccio nella vita. Ho la sciarpa, la bandiera, lo striscione e tutto il resto non conta. Allo stadio vivi una situazione di gruppo, di stare insieme, di socialità non gerarchica e quindi di uguaglianza che in giro non trovi da nessuna parte. Dimmi qual è la situazione in cui, prima di farti entrare, prima di dirti ok vieni, sei dei nostri, non ti passano al setaccio. Già se non sei vestito in un certo modo sei tagliato fuori e poi se, come me e i miei amici, fai un lavoro del cazzo nessuno ti guarda neppure in faccia. Ti inquadrano subito come tamarro e per te non c'è più storia. Guarda che questa è una cosa che te la ritrovi ovunque, persino nei centri sociali. Se arrivi tutto vestito largo, con i dred, fai qualche lavoro figo, parli che nessuno capisce un cazzo di quello che dici e tutte ste cose qua allora ok, tutti ti considerano. Ma se non rispetti quel canone, sei fottuto, ti guardano come se fossi un alieno. Allo stadio questa sensazione di essere di troppo o fuori posto, invece non ce l'hai mai.

Quindi è possibile dire che lo stadio, per molti e in particolare per chi vive nella profonda periferia, non ha un alto tasso di scolarizzazione e svolge lavori poco appetibili e socialmente di prestigio, diventa uno dei pochi luoghi, o forse l'unico, in cui è possibile trovare e coltivare un'appartenenza sociale senza discriminazioni?
È così. Lo stadio, per noi, è questa roba qua. Forse non è molto ma è qualcosa.

Torniamo ai fatti di Catania. Che rapporto ci può essere tra quelle scene di violenza e la pratica del tifo?
Ma lì, da quello che si può capire, c'erano dei conti in sospeso da tempo. I motivi possono essere tanti e di varia natura. Possono essere questioni che sono nate dentro allo stadio e che si sono trascinate fuori o viceversa. Ma può anche essere, non è mica tanto improbabile, che da una scintilla, nata forse per caso, sia montato poi tutto quel casino senza che nessuno lo avesse pianificato. Questa, anche se mi sembra l'ipotesi meno accreditata, potrebbe essere quella più vicino al vero. Immaginati una situazione, che può realizzarsi ovunque, di uno scontro tra la polizia e un gruppo di tifosi. Il gruppo di tifosi non scappa e reagisce. A quel punto intervengono altri poliziotti. Tutti gli altri tifosi cosa dovrebbero fare: stare a guardare? La cosa più probabile è che si buttino nel mezzo. Poi come va a finire dipende un po' dal caso.

Quindi, secondo te, se scoppiano degli incidenti la cosa più probabile è che i tifosi, o almeno parti cospicue di questi, non si tirino indietro ma si buttino nel mezzo, quasi non aspettassero altro?
Quasi non aspettassero altro è un'esagerazione ma credo che sia più vero dire che, dovendo scegliere, viene più naturale stare da una parte piuttosto che dall'altra. Alla fine ti viene per forza da stare con i tuoi.

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