VISIONI

La scena del continente nero

arte black
LORRAI MARCELLO,Bilbao

Una collezione privata si costruisce sulla base di gusti e inclinazioni personali, e ad orientare la scelta nell'acquisizione dei pezzi la simpatia per un'artista o una corrente può tranquillamente prevalere sul criterio della considerazione del valore assoluto delle opere. Non avrebbe quindi senso rimproverare al florilegio della raccolta Pigozzi esposto al Guggenheim di Bilbao sotto il titolo 100% Africa (fino al 18 febbraio) di non offrire una rappresentazione del tutto equilibrata dell'arte contemporanea del continente nero, o di non tenere conto di alcune punte particolarmente alte della creazione africana degli ultimi decenni. È il caso piuttosto di compiacersi per quel che di non scontato c'è appunto nell'indicazione 100% Africa e per come la sostanzia la mostra, curata da André Magnin, conservatore della ginevrina Contemporary African Art Collection di Jean Pigozzi (l'allestimento è di Ettore Sottsass e Marco Palmieri).
Intanto, se il Nordafrica non è meno Africa delle regioni che stanno più sotto, è anche vero che presenta problematiche culturali ed estetiche sensibilmente diverse da quelle dell'Africa subsahariana, e che concentrarsi su quest'ultima consente forse di distinguere meglio alcuni elementi di forza dell'arte che dall'Africa è venuta emergendo nell'ultimo mezzo secolo. Poi l'esposizione presenta figure la cui attività artistica si è definita e sviluppata all'interno degli ambiti di appartenenza, e non nella migrazione nei poli dell'arte contemporanea occidentale.
Infine 100% Africa rivolge essenzialmente il proprio interesse ad una produzione artistica che non sembra troppo preoccupata di aderire ad alcune delle tendenze più in voga nell'universo dell'arte contemporanea occidentale di oggi: in altre parole, a Magnin preme giustamente valorizzare come caratterizzante la diffusa permanenza nell'arte attuale dell'Africa nera di una tensione figurativa e narrativa che molti, nel mercato dell'arte contemporanea, reputano obsoleta.
In questo senso, benché si faccia sentire la mancanza di parecchi dei creatori africani di più esaltante temperamento, benché 100% Africa punti forse soprattutto su aspetti della produzione africana di brillante appeal e agevole fruibilità, la selezione propone però dell'arte africana contemporanea non solo un'illustrazione di grande vivacità e varietà, ma anche un'immagine più soda, meno dispersiva e meno in debito nei confronti dell'arte contemporanea del Nord di quella che si è potuta a volte ricavare anche da una Biennale africana come Dak'Art (il riferimento non è all'ultima edizione 2006 ma per esempio alla 2004).
Due i filoni per i quali, all'interno di una panoramica che tocca venticinque artisti di quattordici paesi, 100% Africa ha un occhio di riguardo: i pionieri della fotografia, e la cosiddetta «pittura popolare» del Congo ex Zaire. Accanto a due maestri ormai riconosciuti anche a livello internazionale come i maliani Seydou Keita e Malick Sidibé, si scopre Paramount Photographers, pretenziosa insegna scelta da un nigeriano (di cui Magnin non è arrivato ad individuare il nome) che, di ritorno da un periodo negli Usa (in cui avrebbe lavorato come fotografo a Hollywood: mitizzazione dell'emigrazione, si può supporre, ad uso della famiglia), è stato attivo a Lagos fra la fine dei cinquanta e dei sessanta: tanto nei ritratti di Seydou Keita (di cui 100% Africa espone la bellezza di 300 stampe nel formato a cui gli scatti erano originariamente destinati, quello di un album di fotografie o di una cornice sopra un comò) si impone il senso della composizione, l'eleganza pittorica, tanto in quelli di Paramount Photographers è escluso l'artificio, la messa in scena, facendo risaltare la umanissima banalità dei soggetti che si mettono davanti all'obiettivo, spesso in piedi in una dimessa posizione frontale. Nella serie dedicata alle acconciature femminili, spesso incredibili, di J.D. 'Okhai Ojeikere, un progetto personale che il fotografo nigeriano porta avanti da decenni, il formidabile valore di documentazione socio-antropologica e di valorizzazione di queste creazioni come effimere opere d'arte, è spesso innalzato, in un bianco e nero nettissimo e in una straordinaria capacità di astrazione, alla evocazione di forme in sé, che trascendono l'individualità concreta delle donne immortalate.
Ben diverse da quelle di cui Depara, fotografo della Kinshasa by night e delle «belle di notte» zairesi anni sessanta-settanta, coglie, dietro le mises provocanti, tutta la fragile, incerta identità in un'età di inurbamento, di perdita dei valori tradizionali e di inseguimento degli stili di vita occidentali. Una gravosa eredità raccolta dalle seducenti fanciulle che Bodo dipinge con teste che, assai più inquietanti delle pur fantastiche acconciature di Ojeikere, sono ramificate e popolate di serpenti, corvi, ramarri, pipistrelli: un tema indicativo del moralismo didascalico che percorre, anche negli esponenti più noti come Chéri Samba e Chéri Chérin, la pittura popolare zairese, ma che non impedisce ai quadri di avere una loro prorompente motivazione. L'assenza di moralismo è proprio quello che all'interno di questo ambito distingue positivamente Moke: nei suoi ritratti di donne pacchiane la simpatia per il loro vitalismo pare prevalere sul grottesco. In questa Africa mutante il beninese Romuald Hazoumé crea delle polemiche maschere anti-esotistiche con recipienti di plastica che richiamano l'Africa discarica e l'Africa della miseria sopra un mare di petrolio.
Un'Africa sconquassata in cui l'ivoriano Frédéric Bruly Bouabré non ha comunque perso la fiducia non solo in un'arte narrativa e figurativa, ma in un'arte della condivisione comunitaria che si faccia veicolo di una certosina sitematizzazione enciclopedistica universale: in duecento disegni formato cartolina che fanno parte della serie Connaissance du monde, Montgomery Clift e Barbara Bush, l'insegna dell'Agip o il leone alato simbolo di Venezia risultano piccoli tasselli di una complessità del mondo per avvicinare la quale, saggiamente, non è meno importante fissare anche i segni lasciati dalle umili noci di cola adoperate per una pratica divinatoria.

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