CULTURA

L'arte del ricordo a Ostia

DEL DRAGO ELENA,

Giunta alla sua quarta edizione, la rassegna Arte in Memoria, acquista - in tempi di negazionismo esibito - un significato sempre più urgente e meno commemorativo, sottolineato dal suo situarsi fuori da una logica tempistica (sarà aperta fino all'11 marzo, il catalogo edito dagli Incontri Internazionali d'Arte verrà pubblicato al termine della mostra). È nella continuità, infatti, che questa rassegna artistica voluta da Adachiara Zevi, tuttora la curatrice, riesce a svolgere il suo lavoro critico: chiamare artisti di diverse nazionalità e culture a mettersi in relazione con un luogo fortemente simbolico, com'è la Sinagoga di Ostia Antica, è un'operazione che proprio nel suo riproporsi, ogni anno con autori diversi, ammonisce sulla vacuità delle commemorazioni legate alle sole contingenze. Aderendo alla giornata della memoria sin dagli esordi, questa rassegna ha già lasciato dietro di sé un percorso tangibile di opere che, donate dagli artisti al luogo per le quali sono state pensate, formano un arcipelago del ricordo estendibile oltre i confini della data deputata a celebrarlo. Viene permessa, così, anche la riscoperta di un luogo di cui non molti conoscono l'esistenza: edificata intorno al I secolo d.C., la Sinagoga di Ostia è stata scoperta soltanto nel 1961, quando i lavori di scavo per la realizzazione dell'autostrada che conduce all'aeroporto di Fiumicino ne portarono alla luce alcuni resti.
In assenza di documenti scritti, è quanto rimane dell'architettura - le quattro colonne monumentali che segnano il passaggio al luogo di preghiera, l'altare da una parte e l'edicola dall'altra - a testimoniare, insieme alla precoce presenza ebraica, il rispetto di alcune costanti architettoniche: la direzione verso est, verso Gerusalemme, la vicinanza al mare e la presenza di diverse zone concepite per l'accoglienza. Con questa eredità culturale fortemente simbolica si sono confrontati, a partire dal 2002, più di venti artisti - da Marisa Merz a Giulio Paolini, da Fabio Mauri a Eliseo Mattiacci, da Elisabetta Benassi a Cesare Pietroiusti - e alcuni di loro hanno scelto appunto di lasciare il proprio lavoro che, lontano da quello spazio, avrebbe perso ogni significato. Tra gli artisti, Sol Lewitt, che sperava con questo gesto di dare inizio a una vera e propria raccolta contemporanea in un sito archeologico; e l'israeliano Gal Weinstein, di cui è possibile vedere il mosaico nel prato vicino alla Sinagoga. Ci sono poi, le rovine contemporanee di Pedro Cabrita Reis, avvezzo a dialogare con l'architettura, che per volere dell'autore sono rimaste a fiancheggiare altri resti millenari. Gli artisti convocati quest'anno sono Giovanni Anselmo, Massimo Bartolini, Jan Dibbets, Christiane Löhr, Remo Salvadori e Lawrence Weiner: insieme sono intervenuti con il loro lavoro in questo spazio della riflessione dando vita a una edizione meno ricca di quelle passate, dove non mancano tuttavia lavori interessanti: particolarmente riuscito è quello di Christiane Löhr, che forse grazie alla sua esperienza di confronto con luoghi che custodiscono la memoria ha saputo cogliere lo scopo della rassegna con particolare intensità. Perfettamente conseguente al suo percorso imperniato sul rapporto tra il paesaggio architettonico e quello naturale, questa artista tedesca allieva di Jannis Kounellis all'Accademia di Düsseldorf, ha creato con i semi di edera - sono sempre elementi naturali a costituire gli strumenti della sua grammatica visiva - una piccola isola con diverse escrescenze, che racchiusa in una piccola teca di plexiglass capace di proteggerla, sembra farci riflettere sul destino fragile di ogni manufatto umano rispetto alla durata del contesto naturale che li ospita.
Anche Giovanni Anselmo, maestro riconosciuto dell'Arte Povera, si è ispirato all'osservazione delle leggi fisiche del mondo naturale, tanto da riprodurre elevazioni e torsioni, sculture che ci fanno sentire con evidenza il loro peso e la forza invisibile che le circonda. In occasione di questa mostra, ha cercato di evocare l'invisibile attraverso una serie di lettere impresse su un blocco di granito nero, il cui fine è quello di ripetere lo stesso meccanismo proprio della memoria. Altrettanto impercettibile, a un primo sguardo, l'intervento di Massimo Bartolini, che lavora spesso sui mutamenti e sui cambiamento di funzione degli spazi in base allo stato d'animo di chi li abita: qui ha scelto di focalizzare il proprio sguardo su un anonimo cancello generalmente chiuso, che divide i resti della città di Ostia Antica dalla strada trafficata che porta alla vita di tutti i giorni. L'artista ha lavorato sull'inceppo del meccanismo, che consente al cancello di aprirsi solo fino a un certo punto, alludendo - quando il cancello si richiude inesorabilmente e senza una ragione apparente - alle speranze deluse dei deportati ad Auschwitz; finché finalmente venne anche per loro il giorno della liberazione, il 27 gennaio del 1945.

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