Identità perdute, identità da ricostruire, identità da trovare, identità da conquistare. Un filo rosso, quello dell'identità, che attraversa gran parte del cinema visto qui a Rotterdam, e quindi del cinema contemporaneo. Un cinema del mondo e del futuro, visioni parziali, per carità, non potrebbe essere altrimenti in un moltiplicarsi di immagini come avviene in questa autentica festa del cinema.
Poche storie e spazi per il «noi», per pluralità solidali, per le con-passioni, ossia per le passioni condivise. Uomini e donne separati, scissi, che cercano innanzitutto la prima persona e poi la seconda e la terza, o che hanno perso definitivamente l'altro e allora iniziano una nuova ricerca a partire dal racconto del proprio «io».
Lo spazio pubblico si fa sfera privata, lo sguardo volge all'interno piuttosto che all'esterno. È il nostro malessere e alcuni autori lo registrano con lucidità mentre altri mostrano di essere vittime loro stessi di questo annegamento della pluralità in un'individualità che giunge al solipsismo più esasperato.
Molti film sono la testimonianza del tentativo di dirimere le complessità del contemporaneo a partire dal sé prendendo congedo dall'altro, dagli altri. È il caso di Yo, opera prima in concorso dello spagnolo Rafa Cortés. Un uomo senza identità che se ne appropria di un'altra. Viene dalla Germania ed emigra in Spagna. Lavora per un connazionale, in una villa di Maiorca. Fa di tutto allo stesso modo del suo scomparso predecessore che come lui si chiama Hans. Ma in realtà, saputo della sua provenienza geografica e del suo lavoro, cos'altro conosciamo di questo individuo? Niente. Lui custodisce gelosamente i propri demoni nell'animo. Per i personaggi che gli girano intorno e per il pubblico, Hans costituisce un mistero irrisolvibile. Il tedesco è un fantasma, forse un doppio, forse un vampiro. In ogni caso resta chiuso nel suo proprio io e per gli altri è apparenza. Un'apparenza che esiste, perché ciò che appare esiste, ma senza mai arrivare a noi, senza mai condividere il proprio essere con quello degli altri.
Riduzione a uno e nessuna apertura ai tanti. Se io divento un altro, allora l'altro sparisce perché è diventato me. Impossibilità del sapersi mettere al posto degli altri al contrario di quello che Kant indicava nella seconda massima del senso comune. E nell'altra massima, saper pensare da sé, si rivela il lato solipsistico, quello del pensare per sé.
Altra storia, altro contesto, ma sempre identità in cerca del sé. Le immagina il danese Morten Hartz Kaplers, con il bel mockumentary AFR, anch'esso in concorso. La falsa storia del vero primo ministro Anders Fogh Rasmussen, ucciso nella finzione da Emil. Due individui lontani che camminano parallelamente in un mondo che separa e che, nonostante tutto, poi si incontrano per dividersi e di nuovo incrociarsi coinvolti in un unico tragico destino. Kaplers gira con gli avvocati perché prendere di mira il potere non è consentito, inserire il primo ministro in una torbida storia di affari, sesso e omicidi è roba scomoda. Ma quando il potere è così alieno a incontrarsi con il mondo, allora non resta che immaginarselo questo incontro impossibile. Rasmussen, il conservatore, Emil il no global, il ragazzo che vorrebbe non accontentarsi del già dato, che non vorrebbe recludersi nella rendita. E poi che rendita? Entrambi, su lati opposti, vivono alla ricerca di qualcosa che permetta di dare una risposta al motivo del loro essere al mondo. Forse trovano una risposta nel loro incontro fortuito, tuttavia perdono l'occasione perché, appunto, quello in cui viviamo è un mondo che separa, che genera solitudini. La storia è falsa, ciò che il film dà da pensare è vero. La fine è morte.
Pochi segni di vita, sia in latitudine che in longitudine. Morte, è l'odore che sente intorno a sé Lena, la protagonista di Mayak (The Lighthouse) della regista armena Maria Saakyan. Opera suggestiva, fatta di suoni e musiche. Pochi dialoghi, poche spiegazioni, tante immagini che mostrano i contrasti di un paesaggio, quello caucasico, incantato eppure sporco, incontaminato eppure macchiato dal passaggio dell'uomo e dei suoi strumenti di guerra. Lena torna nella sua terra, in Armenia, vorrebbe andarsene via subito ma non ci riesce. Sa di non poter vivere là dove gli elicotteri volano per uccidere, per terrorizzare, e comunque resta perchè ci sono anche gli uccelli a spiccare il volo.
E poi dove andare? La guerra, la morte, è ovunque, anche nelle vetrine dei luccicanti negozi occidentali che espongono merce sporca del sangue di lavoratori costretti a vendersi per sopravvivere, accontentandosi di tenere in piedi il loro nudo corpo. Lo abbiamo visto o soltanto percepito qui a Rotterdam, dall'Asia all'Africa, dal Sud America agli Stati uniti e all'Europa fino all'Oceania. Insomma, ovunque.
Immagini rarefatte di un mondo fatto di solitudini. E viene alla mente la ragazza paraplegica russa di Chelovek bezvozvratny (The Man of no Return) della regista Katya Grokhovskaya. Sola chiusa in una stanza ha un computer, una televisioone e il poster di Brad Pitt. Si masturba con una pila in mano che illumina il sogno di stare nel mondo e non reclusa tra quattro mura, rifiutata da tutto e da tutti. Il suo grido disperato quando chiede all'uomo di sua madre di scoparla riassume il nostro mondo, quello dei sogni che si sono trasformati in bisogni.
Identità da cercare e ricostruire, ma non come quella che stanno imponendo i burocrati dell'Europa della cultura, del multicultiralismo, dell'Europa che finanzia i festival a patto che questi proiettino il settanta per cento (non il 69,9 perché senno addio soldi) di film europei. Festival ariani, altro che moltiplicazioni della visione, che contrasto all'imperialismo degli Usa. Viene quasi da ridere all'idea che i direttori dei festival si debbano comportare come quei presidenti di calcio alla ricerca di presunti bisnonni italiani per poter far giocare un attaccante nella propria squadra, e dunque per poter proiettare un film africano in sala. Ma non c'è proprio niente da ridere.