Un uomo solo, è italiano, si guarda in giro e pensa ad alta voce: «Perché non mi fanno fare un festival come questo? Un festival dove l'anteprima non è questione di vita o di morte, dove il concorso non è così importante, dove il pubblico ...». L'erba del vicino è sempre più verde, e siamo in Olanda. Lasciamolo meditare. Un produttore, anche lui italiano, beve una tazza di caffè e riflette sul film che ha appena presentato: «Che noia mortale, una proiezione allucinante». Siamo pochi, noi italiano, e così depressi! Intanto la banda dei filippini capitanati da Khavn indossa maglie arancione e gialle e gioca a calcio.
Tanto pubblico in sala per ogni film, anche per una storia con protagonisti un bambino e due uomini. Uno più anziano, burbero e poco disposto al sorriso, l'altro più giovane, guascone e generoso. Il clima intorno a loro è festoso, ma devono portare a termine una missione, un lavoro pericoloso e importante. Partono e per strada incontrano un bambino che si è perso. Il burbero non vuole proprio saperne del moccioso che non capisce la lingua dei due e continua a piangere, mentre il giovane non solo gli offre del cibo ma decide anche di farlo salire sul camioncino. Il viaggio continua. E nel tentativo di capire dove sono finiti i suoi genitori, i due uomini vengono derubati del loro mezzo di trasporto. La missione sembra fallire. Il burbero schiaffeggia il bambino, il giovane lo protegge. Poi, per caso, recuperano il camioncino e però accadono altre cose.
Il finale della storia non deve essere anticipato, magari questo road movie americano arriverà in sala o in qualche festival. In tutto questo però c'è un errore: non è un road movie americano, anche se i personaggi sarebbero perfetti, la classica coppia formata dal buono e dal cattivo con l'aggiunta del bambino rompiscatole. E invece, si tratta di un film irakeno, Crossing the Dust (Parinawa la ghobar), realizzato da un regista curdo, Shawkat Amin Korki, al suo primo lungometraggio e inserito nella sezione panoramica «Cinema of the World».
Si fa festa perché è stata appena abbattuta la statua di Saddam, però si continua a sparare. Il Paese è fuori controllo. Gli americani per ora stanno sullo sfondo, loro sembrano estranei, capitati per caso, già vincitori senza essersi sporcati le divise. Di lì a poco (ma non nel film) le cose cambieranno. I due protagonisti devono portare del cibo in una postazione curda. Procedono per le strade in rovina, tra spari, saccheggi e ritrovamenti di fosse comuni. I contrasti, gli equivoci, il nome inopportuno del bambino, Saddam, provocano ilarità. E poi si piange. Forse un film così, un americano o un europeo non avrebbe potuto farlo, il cinema spesso è lo sfogo ideale per i sensi di colpa occidentali. Dunque solo denuncia e lacrime. Crossing the Dust non aggiunge molto all'immaginario se non che, invece della democrazia, in Iraq è stato esportato un genere cinematografico. Probabilmente si potevano usare mezzi meno cruenti per ottenere questo risultato.
L'America è vicina. Mica tanto. Stessa sezione ma cambia decisamente lo scenario con Operation Filmmaker, il documentario di Nina Davenport. Un work in progress che ha per protagonista un ragazzo irakeno di belle speranze, lo studente di cinema Muthana. Mtv lo ha intervistato, lui mostra le rovine di Baghdad e la scuola di cinema che non c'è più. Il regista e attore Liev Schreiber vede il servizio e decide di offrire a Muthana un'opportunità. Chiama il ragazzo per lavorare nel set a Praga di Ogni cosa è illuminata. Addio guerra, addio massacri, i sogni non muoiono mai. Nina Davenport segue le avventure di Muthana. «Amo Bush», dice il ragazzo tra lo stupore-sconforto generale. Ma in fin dei conti è giovane e vuole vivere. Solo che più Muthana entra nel mondo della finzione più la realtà si avvicina. Nel frattempo dal set impegnato di Ogni cosa è illuminata si è passati a quello di un b-movie splatter dove si compiono carneficine e squartamenti di corpi.
Muthana lavora e fa nuove amicizie, ma ha nuove inquietudini. In televisione sfilano le immagini degli attentati in Iraq e quelle delle torture compiute dai soldati americani. Forse Bush non è poi così tanto amorevole. E il sangue vero scorre.
In perenne ansia per un permesso di soggiorno che ogni volta è sempre più difficile rinnovare, Muthana cambia atteggiamento nei confronti della povera Nina e il documentario diventa un backstage con la regista catapultata suo malgrado dentro la storia. «Non stai facendo molto per me. Il tuo prossimo film sarà su un ragazzo afghano?». Che ingrato. Le mani di Muthana coprono l'obiettivo. Il ragazzo cerca di revocare la propria immagine.
Via da Praga, Muthana arriva a Londra per frequentare una scuola di cinema. Un'altra opportunità, ma come si fa a vivere senza grandi prospettive, né soldi e sapendo quello che sta accadendo a Baghdad? Lo scontro tra Muthana e Nina diventa radicale. «Sono io che ti ho fatto un favore, ti ho dato la mia vita da riprendere. Ora mi devi pagare, sei in debito con me». Fine della storia. No, la storia continua perché filmare la vita significa fare un work in progress infinito.
Ora Nina cerca di capire come portare a termine il documentario e liberarsi del giovane ingrato che attraverso il documentario ha potuto lasciare una zona di guerra, frequentare una scuola di cinema e guadagnare dei soldi. Muthana è ancora a Londra e non è affatto contento di essere diventato il protagonista di un documentario e non è nemmeno convinto di essere stato aiutato. Il cinema guarda altrove e si mette sempre in discussione fino ad arrivare al contrasto totale tra l'autore e la sua opera. Nessun reality sarebbe in grado di arrivare a questo punto critico per quel grado autocelebrativo al quale la televisione non sa proprio rinunciare. E intanto l'America non è poi così vicina.