VISIONI

Rotterdam, una favola nera contro i mass media

MONTINARI MAZZINORotterdam

Cosa unisce, al di là della lingua spagnola, un film messicano di chiara matrice realista, che ha come presupposto quello di cogliere la realtà sul fatto, a una favola muta argentina in bianco e nero con uno stile anni '20? Si potrebbe azzardare una risposta teorica basandosi sul doppio registro narrativo che il cinema ha sempre avuto sin dalle origini, ossia la via della finzione e quella del documentario, ma chissà dove andremmo a finire. La risposta è più semplice: a unirli sono il Festival di Rotterdam e la fondazione Huber Bals. Sia Familia Tortuga, opera prima del regista messicano Ruben Imaz Castro nella sezione «Cinema del futuro», che La Antena, secondo film a distanza di dieci anni dell'argentino Esteban Sapir selezionato per il concorso, hanno ricevuto il sostegno economico del festival e della sua fondazione.
Due film interessanti che ci conducono verso un discorso generale sulle attività produttive della manifestazione olandese. Le cifre parlano chiaro e le nostre istituzioni dovrebbero guardarle con attenzione. In 19 anni la Huber Bals ha partecipato alla realizzazione di 400 film, ogni volta con interventi diversi, dal finanziamento in fase di sceneggiatura, alla produzione fino alla postproduzione e alla distribuzione. Quest'anno sono 20 i titoli che portano il marchio del festival provenienti da tutti i continenti. La cosa da sottolineare, sempre come suggerimento per i nostri «operatori culturali», è che l'intento della fondazione e del festival non si riduce a un sostegno per accrescere il numero dei titoli della manifestazione stessa, infatti molti di questi film hanno già fatto il giro del mondo raccogliendo numerosi consensi, né si stanziano dei finanziamenti per una produzione locale, come risulta ben evidente dai paesi d'origine delle opere. Insomma, a Pesaro si sarebbe potuto spendere dei soldi in favore di Raya Martin, vincitore lo scorso anno del concorso e presente qui a Rotterdam con il suo terzo lungometraggio (che non porta nessun marchio italiano nei titoli di testa) e a Torino per un regista come Lisandro Alonso, tanto per fare un nome.
Ovviamente anche l'Olanda non è un paradiso. Accade che nel giornale del festival la direttrice Sandra den Hamer si rivolga direttamente al ministro della Cultura per contestare il previsto taglio dei finanziamenti alla fondazione. Anche qui però si può notare uno stile diverso. «Tagliare i finanziamenti non danneggia la fondazione ma i film e i registi». In questa semplice frase si nota come non vi sia il classico pressupposto multiculturale all'occidentale, dove l'accento cade sul benefattore tollerante e su chi fornisce i mezzi per le diverse forme d'espressione. No, nessuna colonizzazione, tutta l'attenzione è riposta sugli autori e sui loro film. «Il nostro obiettivo è fare in modo che le opere circolino prima di tutto nei paesi d'origine e non soltanto nel nostro festival, proprio perché il nostro lavoro non dura dieci giorni ma tutto l'anno in giro per il mondo». Vedremo come andrà a finire. E vedremo cosa faranno i nostri festival e le Regioni nell'immediato futuro. La via per spiegare cosa significa davvero favorire la libertà d'espressione resta sempre quella di parlare delle espressioni stesse, dei film.
Esteban Sapir è uno dei registi argentini nati artisticamente negli anni '90. Ma a differenza dei suoi colleghi più prolifici ha realizzato due lunghi a distanza di dieci anni e non proprio di facile distribuzione. Dopo Picado fino (1994) Sapir ha realizzato video commerciali e musicali, e nel frattempo ha maturato un progetto ambizioso che necessitava di molto tempo di lavorazione. La antena è una favola nera ambientata negli anni '20 dove tutti coloro che sono rimasti succubi della manipolazione oppressiva dei mass media hanno perso l'uso della voce. Solo un bambino senza occhi riesce ancora a parlare. La vista e la parola separati in mondo tetro senza speranza. Un film di chiaro impatto visivo per stessa ammissione del regista che si definisce prima di tutto un fotografo, un vero e proprio storyboard messo per immagini, senza alcuna concessione all'estetica contemporanea ma con un chiaro riferimento alla politica del secondo 900 e dei primi anni di questo disgraziato millennio, dal nazismo a Bush, da Videla a Saddam.
Comunicazione, quella che manca anche ai componenti della Familia tortuga. Un vecchio zio che passa il tempo a pulire la casa, a parlare da solo o in alternativa a due tartarughe, un nipote che sta cercando di comprendere le sue tendenze sessuali, una nipote che vorrebbe fuggire da un presente e passato che sente come una prigione, e un padre senza scopi nella vita. A tenere insieme o a separare queste persone, questione di punti di vista, è un lutto, la morte della sorella, della madre, o della moglie, comunque di colei che probabilmente costituiva il punto di riferimento per tutti. Necessario l'uso del condizionale perché Ruben Imaz Castro entra nella casa il giorno precedente al primo anniversario della morte della donna. Quello che è accaduto prima non lo sappiamo e non sapremo nemmeno come andrà in futuro. Solo quel giorno viene descritto con stile documentario, cogliendo i sentimenti che animano i diversi protagonisti senza con ciò spiegare la loro psicologia in modo didascalico. Una fiction più reale di un qualsiasi reality, una prova d'esame per un giovane regista che con questo film si è diplomato al Centro de Capacitación Cinematográfica.
Un esordio interessante che mostra come il cinema sia un continuo domandare e tentare di rispondere per poi riproporre altri quesiti perché le risposte non bastano mai. Non sono domande e risposte messicane o argentine, indonesiane o malesi, cinesi o filippine, sono domande e risposte che si aprono sempre a un senso universale. Basta ascoltare e riflettere senza assumere il proprio punto di vista come quello privilegiato e giudicare gli altri come qualcosa di esotico e accativante. Questa è anche la forza di un festival come quello di Rotterdam, una pluralità in movimento.

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