La società della prevenzione (Carocci, pp. 183, euro 14,50) di Tamar Pitch è una analisi sessuata del nostro universo biopolitico. La società della prevenzione è la nostra, una società schiacciata sul presente, spaventata del futuro; una società globalizzata dove da destra e da sinistra risuonano, dopo il crollo dello stato sociale e la perdurante crisi dello stato nazione, ideologie economiciste che insegnano a vedere nella responsabilità individuale la sola risposta ai problemi collettivi, e dove i dispositivi disciplinari passano direttamente attraverso la persona.
Quando ci sottoponiamo a un check medico, compriamo una porta blindata o ci spingiamo in un negozietto biologico a cercare un alimento «sano», ubbidiamo infatti a un comando, tanto informale quanto pervasivo, che rende ognuno in prima persona responsabile del mantenimento dell'ordine. E l'ordine non è altro che un nevrotico tentativo collettivo di esercizio di dominio e di continua affermazione di scelte che si scaricano innanzitutto sul corpo - medicalizzato, monitorato, virtualizzato; è rimozione della paura e creazione continua di nuove paure, di nuovi nemici (il criminale, il terrorista, il migrante); è ingiustizia. Disinteressata a indagare le cause del disagio, dimentica dell'«oppresso» e concentrata sulla «vittima»; impegnata a «securizzare», segmentandoli, i territori e le città, la società della prevenzione genera disuguaglianza, perché solo «chi può permetterselo», chi ha adeguate risorse culturali ed economiche, può adempiere ai suoi imperativi.
Lo stereotipo del femminile
L'interezza dei costrutti di questa società senza vera politica, dove le istituzioni sono in crisi, dove scompare la dimensione pubblica e il senso dell'avere cose in comune, è narrata dall'immagine della donna. Il dominante paradigma privatistico è riassunto nello stereotipo del femminile dedito alla cura, all'educazione, all'igiene e alla pulizia, che ha fatto, già nello scorso secolo, e che continua a fare della donna il passante di una dimensione singolare e contingentalistica della prevenzione e della sicurezza.
L'«antropologia della paura» che governa le scelte individuali e collettive è espressa tutta nel corpo femminile, un corpo che le tecnologie riproduttive rendono sovrano della vita, mentre le retoriche dominanti lo chiamano a tutelarla e proteggerla, e sul quale si riversa la responsabilità ultima di tenere in scacco le ansie collettive, «di riprodurre un ordine materiale e simbolico familiare, un senso comune tradizionale». La lotta colonialista contro l'altro e il diverso è mostrata da una emancipazione femminile, quella messa in scena dalle donne cattive del carcere di Abu Ghraib, «declinata come omologazione del femminile al maschile, parità assoluta, tale anzi da volgersi in umiliazione e degradazione del maschio 'diverso', il maschio che non accetta questa parità». L'ingiustizia che patiamo è detta, ancora, dalle donne: che soffrono di più delle disuguaglianze sociali prodotte dalla ideologia della sicurezza, e restano le vittime di una violenza che, nominata in astratto come minaccia per tutti, aggredisce soprattutto le donne e proviene soprattutto dagli uomini. E che più degli uomini, dato che per le donne la politica «si nutre di relazioni», soffrono del restringimento inarrestabile della sfera pubblica.
La lettura sessuata proposta da Pitch è una mappa di quel che la società fa di donne ed uomini; dimostra che donne e uomini subiscono diversamente gli imperativi sociali e che le donne solitamente ne escono peggio.
Retorica dei diritti
Le immagini cambiano, la manipolazione rimane, si ispessisce, si aggrava. La chiave della differenza sessuale è in tal modo un fattore di approfondimento e articolazione dell'indagine, energica, brillante e spesso ricchissima di implicazioni; ma resta ancillare rispetto alla finalità principale della riflessione, cui preme rivolgere al presente una critica in chiave democratica che fa centro sulla legge, denunciare che ciò che l'oggi ci propina, col suo condimento di istituzioni deformalizzate, crisi della legge e della politica, diritti come retorica e corti «che decidono caso per caso» è semplicemente, e in tutto, peggio di prima. La morale è che uomini e donne non creano il mondo, ne sono creati e, senza un contesto politico e istituzionale adeguato, essi possono fare ben poco.
Lavorano, così, certi pezzi di un approccio sessuato, altri no. Non è messa per esempio alla prova, per vedere che cosa potrebbe dire degli scenari biopolitici, l'ipotesi che la libertà, per le donne come per gli uomini, non sia garantita dalle istituzioni ma da un lavoro simbolico che può alimentarsi, e si è alimentato, anche di una risignificazione degli stereotipi, come afferma Diana Sartori nel testo Dare autorità, fare ordine apparsonel numero di Diotima Il cielo stellato dentro di noi (La Tartaruga), dove proprio lo stereotipo della donna fissata sul tenere in ordine la casa fornisce la chiave per ricostruire il rapporto con la madre e per individuare una libertà femminile che sa manifestarsi approfittando della realtà in cui si trova.