CULTURA

Dentro spazi di eccezionalità permanente

ANDRIJASEVIC RUTVICA,

A leggere la Convenzione di Ginevra, i termini che definiscono la figura del «rifugiato» appaiono piuttosto chiari e lineari. Se però ci chiediamo a chi spetti appurare se sussistano le circostanze di un «fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale od opinione politica», vedremo che sono gli stati contraenti a stabilire le procedure per l'accertamento: un dato, questo, che aiuta a comprendere perché vi siano paesi che non hanno rifugiati dal momento che non esistono (o sono poco accessibili) le procedure per fare domanda di asilo, paesi dove i funzionari chiamati a decidere - piuttosto che accertare la veridicità del racconto fatto dai richiedenti asilo - si piegano alle priorità definite dai governi in cerca di consenso, e infine paesi dove i migranti, pur di aver accesso a condizioni di vita migliore, in assenza di altri canali, fanno richiesta di asilo.
Come mostrano diversi contributi dell'ultimo volume della rivista «Studi Emigrazione», i confini della categoria «rifugiato» insomma sfumano e diventano permeabili agli interessi nazionali, internazionali e a quelli di gruppi di pressione di vario tipo. Intitolato Rifugio Europa?, il fascicolo monografico - curato da Nando Sigona, ricercatore presso la Oxford Brookes University in Gran Bretagna, pp. 270, euro 18 - si pone in continuità con la ormai quarantennale linea di ricerca della rivista e in particolare ha il merito, considerando i rifugiati una specifica tipologia di migranti, di inserire l'asilo nel contesto del tema del controllo dei confini e della ridefinizione della cittadinanza europea.
Al lettore però vengono presentati anche altri casi che riportano in primo piano la soggettività dei rifugiati al di là delle procedure che provano a schiacciarla sulle definizioni ufficiali. Casi nei quali si affrontano temi come la questione di genere all'interno dei campi profughi nella Repubblica Ceca (Szczepanikova); lo scontrarsi di interessi burocratici, accademici e dei migranti nel definire la categoria del rifugiato in Spagna (Jubany-Baucells); la vita sociale e le relazioni transnazionali delle famiglie nigeriane in Irlanda (Iroh); le pratiche razziste dirette contro i rifugiati bosniaci e somali in Svezia (Cederberg); la comparazione fra le politiche di integrazione in Gran Bretagna e Germania (Griffiths); e l'analisi delle politiche di «rimpatrio volontario» per i rifugiati albanesi dal Kosovo in Italia e Gran Bretagna (Amore). I contributi raccolti sono il risultato di ricerche condotte in ambiti disciplinari diversi - dal diritto alla storiografia, dall'etnografia alla teoria politica - che, proprio grazie a questa ricchezza di prospettive, offrono la possibilità di leggere in tutta la sua complessità il fenomeno migratorio europeo e la molteplicità di processi, attori e interessi che vi partecipano.
L'analisi delle cosiddette «migrazioni forzate» mette in luce i limiti della roboante retorica che, come nel caso degli sbarchi a Lampedusa oppure degli ingressi «irregolari» in Spagna attraverso le enclaves di Ceuta e Melilla, accompagna le migrazioni contemporanee e percepisce i movimenti migratori in termini di «flussi» governabili attraverso il rafforzamento dei confini esterni dell'Unione Europea.
Confini che, ben lungi dall'essere barriere impenetrabili, sono invece filtri mobili in continua trasformazione, il cui profilo cambia in relazione alle pratiche dei migranti, alla delocalizzazione del controllo, alla regolamentazione dei visti, alla costruzione di campi per rifugiati e migranti «irregolari» in paesi terzi, nonché al processo di integrazione europea (di questi temi si occupano fra gli altri i contributi di Rigo e Shuster). Tali trasformazioni si possono ricondurre alla tendenza da parte dei «vecchi» membri della Ue a trasferire la responsabilità sull'asilo ai nuovi membri oppure, come nel caso della Libia, a stati terzi. Come dimostrano i dati dell'Unhcr (l'alto commissariato nelle Nazioni Unite per i rifugiati), queste pratiche hanno portato tra il 1995 e il 2004 alla riduzione di un terzo del numero di rifugiati residenti in Europa, calati da 3.090.000 a 2.068.000.
La trasformazione del sistema di accoglienza e delle politiche di asilo a livello europeo si ripercuote in vari modi all'interno degli ordinamenti nazionali degli stati membri. Come illustra il contributo di Liza Schuster, le misure di contrasto e deterrenza dell'immigrazione - quali i campi profughi, i centri di accoglienza e quelli di detenzione, progettati e realizzati dai governi dell'Ue nei paesi confinanti con l'Unione o nelle regioni da cui provengono i principali flussi di rifugiati - hanno contribuito significativamente al restringersi della possibilità di accedere alle procedure di asilo in Europa.
I campi, sottolinea l'autrice riprendendo ricerche etnografiche come quelle di Federico Rahola, sono luoghi dell'eccezionalità divenuta permanente, espressioni spaziali di relazioni socioeconomiche globali che nel consolidarsi producono umanità in eccesso. In parallelo con la spinta all'esternalizzazione, l'attuale clima di war on terror ha incentivato, inoltre, un processo di «ritorno all'integrazione».
Come rileva Nando Sigona, l'espressione si riferisce a quelle spinte, diventate via via più nette, verso l'elaborazione di politiche per l'inclusione che, almeno alla lettera, richiedono da parte dei destinatari un impegno attivo verso la «integrazione» nella società d'accoglienza. In aggiunta, per coloro che entrano nell'Ue e si vedono riconosciuto lo status di rifugiato - «o qualcuna delle numerose formule intermedie ideate negli ultimi anni per rendere la protezione più precaria nel tempo e nei diritti ad essa associati» (Sigona) - si apre un universo burocratico fatto di decine di funzionari e volontari, dei più disparati orientamenti politici, culturali e religiosi.
Solo a partire dalle pratiche dei rifugiati e dalle domande soggettive che in esse si esprimono, è però possibile analizzare le trasformazioni del «Rifugio Europa» e delle politiche sull'asilo. E questo volume di «Studi Emigrazione», in continuità con altri lavori teorici che lo hanno preceduto e secondo gli insegnamenti delle teoriche femministe nere e post-coloniali, ha appunto il pregio di non ridurre il sapere dei migranti a una semplice categoria descrittiva ma di riconoscere il loro apporto nella produzione di sapere sulle politiche e sui movimenti migratori contemporanei.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it