Amin fuma stancamente una sigaretta, seduto sul pontile della Arji, una vecchia bagnarola battente bandiera cambogiana. Ha 35 anni, e una vita passata in mare, sulle rotte peggiori dell'Oceano Indiano. Capelli rossi, occhi azzurri e una canotta che tanto tempo fa doveva essere nuova e linda, il marinaio siriano osserva distratto il porto commerciale di Mogadiscio che gli si apre davanti. «Siamo qui da una settimana. Abbiamo portato un carico di cemento dall'Indonesia. Dovevamo scaricarlo e ripartire in un paio di giorni. Invece, è scoppiata la guerra, i lavori di scarico si sono interrotti, e noi siamo rimasti qui, con mezza nave da svuotare, senza sapere a chi rivolgerci», racconta. «Abbiamo visto i jet arrivare e bombardare l'aeroporto, le milizie islamiste prepararsi a difendere il porto e poi, di colpo, andare via nel cuore della notte», incalza Osam, siriano di Tartus come tutto il resto dell'equipaggio. «Poi, l'altro ieri pomeriggio, intorno alle 15,30, i militari etiopi sono entrati nel porto e ne hanno preso il controllo», prosegue. «Ora, se permetteranno agli scaricatori di riprendere i lavori, speriamo di prendere il largo il prima possibile. Ho visto molte situazioni del genere, ma la Somalia mi preoccupa sempre più degli altri posti».
Intorno al cargo, alcuni giovani militari di Addis Abeba pattugliano lentamente lo scalo. Altri, alla fine dei moli, acquartierati vicino a una tenda, un mitragliatore montato sul treppiede rivolto verso la vicina spiaggia, osservano un gruppo di bambini somali fare il bagno. «L'entrata in città è stata molto tranquilla, dopo i combattimenti dei primi giorni», racconta Musa, 20 anni, evidenti origini somale ma una famiglia che lo aspetta vicino a Bole Mikael, un quartiere vicino all'aeroporto di Addis Abeba. «Sinora, almeno in questa zona di Mogadiscio, non abbiamo avuto problemi. La gente si tiene lontana da noi, e noi cerchiamo di non venire troppo a contatto con loro. Se poi la mia squadra ha necessità di comunicare con la popolazione, parlo io che sono di etnia somala», continua il giovane soldato, sistemando meglio il fucile mitragliatore. Intorno, i suoi commilitoni sorridono, apparentemente tranquilli. Più in là, nei pressi dell'ingresso principale dello scalo marittimo, a ridosso della grande strada che costeggia il mare, i soldati etiopi vengono sostituiti da quelli del governo di transizione. Uniformi nuove, di un verde fastidioso, senza insegne, né gradi. Sulla strada, andando verso Afissione Market, camion militari etiopi pattugliano lenti, i militari attenti a non puntare i fucili troppo ostinatamente sui passanti. «In questa zona, abbiamo accolto i soldati di Addis Abeba senza problemi. La gente vuole solo pace e la possibilità di ritornare a vivere», dice il colonnello Abdirashid, 50 anni e una tuta mimetica beige. Uniche mostrine, dei distintivi con i colori della bandiera somala: stella bianca in campo azzurro. La zona non è delle più rassicuranti, ma la gente osserva i veicoli militari con apparente disinteresse. «Da qui comincia la zona di Godka. È una delle più pericolose della città. Se qualcuno viene rapito a Mogadiscio e portato a Godka, ci sono solo due soluzioni: o si paga un riscatto consistente, o si muore», racconta Guled, mentre con un piccolo bastone enfatizza le sue parole. Intorno all'aeroporto, la stessa situazione. All'ingresso truppe del governo provvisorio, dentro un'unità meccanizzata etiope nascosta nella boscaglia. Appena fuori, sulla strada, facce tese ma nessun incidente. Nel quartiere di Wardighley, nel pomeriggio, un gruppo di persone ha inscenato una dura protesta al passaggio di un convoglio di militari etiopi, tirando sassi e lanciando slogan. «Finchè gli etiopi non reagiranno alle manifestazioni contro di loro, forse la gente si limiterà a canti, lanci di pietre, copertoni bruciati. Se invece qualcuno si innervosirà, al primo ragazzo somalo ucciso dai soldati, allora si scatenerà la battaglia. La situazione è molto fragile e delicata», spiega Hashim, un colonnello che fa capo al ministero dell'Interno del governo provvisorio.
Intanto ieri il presidente del Tfg Abdullahi Yusuf è giunto nei dintorni della capitale, trasportato da Baidoa a bordo di un elicottero. Seduti all'ombra di un enorme aligroop, un albero tipico della vegetazione somala, importanti esponenti dell'esecutivo provvisorio discutono con anziani e capi-clan di Mogadiscio. All'ordine del giorno, una possibile visita dell'anziano leader all'interno della capitale. Si alternano al microfono il primo ministro, Ali Ghedi, il suo vice, Hussein Aidid, figlio del generale più ricercato dagli americani negli anni '90, e Ali Mahdi, nemico giurato di Aidid padre ma ora compagno di governo di Aidid figlio. Alla fine, si decide che Yusuf, che non è originario di Mogadiscio, ma del Puntland, ritorni a Baidoa. Le alleanze non sono chiare, Mogadiscio rimane a due passi dalla pace e uno dalla guerra.