POLITICA & SOCIETÀ

Il tempo di scrivere la nostra vita

NICCOLAI SILVIA,

Poiché ha offerto la propria malattia alla battaglia per la legalizzazione dell'eutanasia, Piergiorgio Welby ha sopportato i tempi propri di una protesta civile: prima l'esperimento delle procedure giudiziarie, poi, come atto finale di denuncia di una legge considerata ingiusta perché ostacola quell'azione, lo spegnimento dei macchinari. Ha accettato la spersonalizzazione che queste battaglie comportano: «ho eseguito la volontà del paziente», dice il medico, che pure era amico di Welby, e che però non mette come movente del suo gesto l'amicizia, ma qualcosa che si pretende oggettivo, normativo. Il potere, della legge, della volontà, il potere di vietare e autorizzare, è stato al centro della vicenda di Welby, insieme alla ribellione contro il disciplinamento tecnologico, al quale la malattia e la morte sono nel nostro tempo consegnate, ribellione tentata da un uomo che, per il tipo di lotta che con esso ha ingaggiato, ha reso forse quel disciplinamento più irrimediabile, più pieno, più potente, accettando che l'interesse politico per una nuova e diversa legge quasi dettasse i tempi della morte. Ma che proprio in tal modo ci ha restituito per intero la domanda su dove mettiamo la vita, la malattia e la morte, che cosa pensiamo le governi; a chi, secondo noi, esse appartengono. Oggi che Welby è morto, resta a noi la responsabilità di che cosa sapremo fare della sua domanda.
Potremmo lasciarla alla politica dei partiti, dove, come lotta iterativa della battaglia per la legalizzazione dell'aborto, potrebbe concludersi con il riconoscimento di un diritto di morire che suggellerà un ulteriore allontanamento da noi della morte, e la finzione che, alla fine, si muore sempre per scelta. Potremmo invocare a favore di questa legge l'urgenza di decidere, e farlo specialmente a fronte delle indecisioni dei giudici. Essi, quando hanno esaminato la richiesta di Welby di interruzione dei trattamenti, hanno pensato probabilmente al fatto che proprio nella protezione della vita la democrazia che si è costituita dopo i campi di sterminio ha riposto la propria identità, una identità che, d'altronde, evidentemente non offre una guida certa e sufficiente quando non si sa se le cure stanno dalla parte della vita, o della morte. Perciò, le loro risposte non sono state risposte, e in questo può esser vista una mancanza di giustizia. Ma la mancanza della giustizia, in certi casi, contiene una opportunità. Essa segnala che bisogna tenere aperto il tempo affinché un senso possa formarsi tra di noi, senza il quale nessuna risposta è possibile. È questo il tempo che ci serve. L'urgenza di decidere, si dice, c'è per proteggerci dagli abusi, che in assenza di regole i medici potrebbero compiere ai danni di malati come Welby. Ma si potrebbe dire che una legge non ci proteggerà dagli abusi; che, anzi, la ritualizzazione e l'abitudine, che le regole portano con sé, ne accresce il rischio.
Potremmo allora ascoltare altre versioni, altre storie, altre interpretazioni, ed esse potrebbero suggerirci che ciò che ci protegge dagli abusi è la posizione in cui riusciamo a trovarci in una situazione; e che questa posizione è fatta dei nostri rapporti con gli altri e con noi stessi, che ci sostengono e ci tengono insieme. Più versioni, più storie, più interpretazioni ci daremo il tempo di sentire, di tenere presenti e tra di noi, più potremmo iniziare a vedere, in vicende come quella di Welby, anziché il potere che giganteggia solo, più modestamente tante, diverse possibilità aperte. Se il senso comune di ciò che è in gioco in questi casi cambiasse così, anche il fantasma dei giudici che o non decidono o perseguitano chi compie un gesto di pietà, potrebbe affievolirsi, perché quel tipo di senso comune potrebbe sostenere decisioni giudiziarie capaci di equità, del tener conto delle circostanze, della ragione e della coscienza. Se ci daremo tempo, potremmo forse, invece di vivere nel terrore e nell'impotenza, renderci capaci di nutrirci l'un l'altro della convinzione che, se non si è soli, possiamo scrivere la nostra vita fino in fondo, e in tanti modi diversi. Questo dono io spero ci venga dalla domanda che Welby ci ha lasciato.
* Docente di diritto costituzionale
Università di Cagliari

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