LA PAGINA 3

Mogadiscio sicura, guerra alle porte

Reportage Nelle strade della capitale somala controllata dalle Corti
MANFREDI EMILIO,Mogadiscio

Hussein Mohammed Ali, 21 anni, siede all'ombra di un aligroop, un albero tipico della Somalia. Senza maglietta, esibisce un fisico sottile ma dai muscoli scolpiti. Intorno a lui, Abdi si improvvisa barbiere, prendendosi cura dei suoi capelli cortissimi con una forbice arrugginita e un pettine di plastica verde, a cui mancano molti denti. «Non possiamo permetterci un vero taglio, non abbiamo soldi. Dunque ci tagliamo capelli e barba a vicenda. Tanto, non c'è nulla da fare, non c'è lavoro», racconta Hussein, grondando sudore nella canicola mattutina. «Prima sono stato miliziano per uno dei signori della guerra che controllavano la città. Lui combatteva contro le Corti islamiche, è stato sconfitto ed è scappato via. Io sono rimasto qui, nel mio quartiere. Ora vorrei trovare un lavoro, ma se scoppierà la guerra con l'Etiopia, tornerò a combattere. Sono pronto», dice il giovane, il corpo segnato da numerose cicatrici, mentre il suo «parrucchiere» annuisce. «Il conflitto è alle porte, non ci sono dubbi - conferma Abdi -, basta ascoltare la radio per capirlo».
E mentre l'auto - finestrini oscurati ad impedire ogni sguardo dei passanti - corre veloce per le strade di Afaad Yakhshid, nella parte nord di Mogadiscio, radio Horn Afrik trasmette il primo notiziario della mattina. Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, uno dei leader delle Corti islamiche che da giugno controllano la Somalia centro-meridionale, annuncia che le truppe etiopiche stanno per attaccare le postazioni dei miliziani islamisti nei pressi del confine comune. «Sheikh Sharif sta invitando tutto il popolo somalo a prepararsi alla jihad, la guerra santa contro Addis Abeba, per difendere la libertà della Somalia», spiega Guled, l'autista, alzando il volume della radio. « I leader politici e militari delle Corti si sono recati in questi giorni a Bur Aqaba e Bandiradley, in visita agli avamposti dei nostri miliziani, invitando i combattenti a mantenere la calma ma ad essere pronti a rispondere all'aggressione», continua nel suo italiano preciso ma un po' fuori moda, imparato vent'anni fa alla scuola del Sacro Cuore di Mogadiscio. Correndo a velocità spropositata per strade sterrate solcate da buche profonde, in mezzo a una vegetazione rigogliosa di cactus che sbatte contro le portiere, l'auto raggiunge un piccolo slargo su cui si affaccia una moschea, piccola ma recentemente riverniciata di bianco. Di fronte, la clinica di Medici senza Frontiere, una delle poche strutture di prima assistenza gratuite rimasta sempre aperta a Mogadiscio, anche negli anni più duri della violenza tra clan rivali. Intorno al piccolo ospedale, decine di madri con i bambini in braccio attendono il proprio turno per la visita. Sullo sfondo, tra cumuli di immondizia sedimentata negli anni, un numero impressionante di baracche tirate su con pezzi di lamiera e rottami di automobili e carri armati, abitate da migliaia di persone che non hanno più nulla.

Le diagnosi degli infermieri

«Visitiamo circa 400 pazienti al giorno. Sono molti, considerato lo staff che abbiamo. Infatti, io sono l'unico medico e ho a disposizione una quindicina di infermieri», racconta Mohammed, mescolando italiano e inglese.
«Ma l'assistenza medica di base è praticamente assente in città, e cerchiamo di fare del nostro meglio», insiste il dottore, controllando la gamba infetta di un ragazzino, sdraiato in una delle stanze di visita. «Ormai i miei infermieri fanno diagnosi da soli, sono molto esperti. Così, riusciamo a smaltire più pazienti in una giornata. Se c'è un'emergenza, o un caso difficile, allora lo visito anche io», spiega l'uomo, camicia a fiori e futa, la gonna tipica degli uomini somali. «Questi due fratelli da mesi soffrono di una grave forma di micosi, che lentamente si sta trasmettendo a tutta la famiglia. Vivono in una delle baracche che si vedono nelle vicinanze della nostra clinica. Ammassati in gran numero in uno spazio angusto, senza accesso all'acqua corrente, in condizioni socio-economiche disperate. Si scambiano i vestiti, non hanno di che lavarli, dormono per terra, a contatto con la sabbia. E così, anziché guarire, diffondono la patologia», dice Mohammed, accendendo una sigaretta. Poi, inevitabilmente, il discorso ritorna sull'attualità. «Dopo la presa del potere delle Corti islamiche, anche il lavoro qui in clinica è diventato più semplice. Noi abbiamo mantenuto sempre la struttura aperta, ma ora c'è sicurezza totale per il nostro staff e per i pazienti. Gli islamisti non ci hanno creato nessun problema nel proseguire il lavoro. Per 16 anni nessuno ci ha garantito alcun tipo di tutela quotidiana», insiste. «Qui a Mogadiscio, vivevamo chiusi in una quindicina di gabbie. Una per ogni warlord. E la comunità internazionale ha continuato a osservare distrattamente quello che succedeva in Somalia senza muovere un dito. Speravano che dimenticando sparissimo dalle mappe. Ora, con le Corti islamiche, siamo in una sola gabbia. Ma per tutti noi, è meglio vivere sotto un solo padrone, piuttosto che con quindici».
A Mogadiscio, la guerra alle porte pare un dato di fatto, nonostante l'equilibrio momentaneo raggiunto con fatica. Una sottile tensione che emerge ad ogni conversazione. «Se la comunità internazionale non frenerà l'Etiopia, la guerra scoppierà. Per ogni somalo, Addis Abeba è un nemico. Nessuno crede al loro desiderio di stabilizzare la Somalia, perchè l'Etiopia non ha mai tollerato l'idea di una Somalia unita e forte», racconta Mohadim, che tutti, per ragioni imperscrutabili, chiamano il biondo. «Con l'arrivo delle Corti islamiche, finalmente, qui nella capitale si è respirata un po' di sicurezza. Potremmo cominciare a ricostruire, ma non ne avremo il tempo», continua il biondo, mentre cerca di mettere in moto la sua vecchia Vespa ammaccata e scolorita, tenendo un enorme pesce spada sulle gambe.
Resistenza e aragosta
«In questo momento, all'interno del territorio somalo, ci sono tra i 25mila e i 65mila soldati etiopici. Le poche centinaia di istruttori militari che Addis Abeba dichiara di avere inviato a Baidoa per addestrare la nuova polizia del governo federale di transizione sono una fandonia», spiega Sheikh Yusuf Inda'adde, il capo militare delle Corti islamiche, mentre spilucca aragosta da un piatto. «Hanno invaso la Somalia, con la scusa di difendere il 'governo provvisorio'. Ma noi siamo pronti a rispondere alla loro invasione, se cercheranno di avanzare ancora», dice piano Inda'adde, lo sguardo di chi non chiude occhio da giorni, mentre si sistema la tuta da ginnastica blu. Intorno a lui, una decina di miliziani, la sua scorta personale, ascoltano in silenzio le parole del capo.
«La spiegazione della crisi va cercata nella presenza di militari etiopici in Somalia», spiega Ibrahim Addow, ministro degli esteri delle Corti islamiche, massaggiandosi lentamente la barba sprofondato in un divano di pelle nera. «L'Etiopia deve ritirarsi, e mettere fine ai suoi progetti di divide et impera sulla Somalia. Siccome Addis Abeba sa che non potrà mai controllare militarmente il nostro Paese, da anni porta avanti il suo progetto di frammentare la Somalia in tanti piccoli staterelli, sull'esempio del Somaliland (l'autoproclamata repubblica secessionista nell'estremo nord, legata economicamente e politicamente al governo etiopico, ndr)», dichiara il ministro. «Il governo provvisorio non è la soluzione al problema. È una struttura totalmente controllata dall'Etiopia. Sono traditori che vogliono vendere la Somalia al nemico, per il proprio interesse personale. In cambio, offrono un governo-marionetta, nelle mani del primo ministro etiope Meles Zenawi. Noi prendiamo atto dell'esistenza del governo di Baidoa. Al momento, è un dato di fatto. Stiamo discutendo con le parti moderate del parlamento provvisorio, rappresentate dal portavoce del Parlamento. Ma sia chiaro, se si troverà un accordo per un governo di coalizione, loro saranno minoritari», insiste Addow. «Se invece saremo attaccati, risponderemo con la guerra santa, a difesa del Paese e della sua unità».

Di nuovo nel baratro?
Il sole precipita in mare tra gli scogli della spiaggia di al-Jazeera, nella periferia sud di Mogadiscio. Lì, un gruppo di uomini si affanna a scaricare a mano un camion pieno di calce. Di fronte, scavato nel costone di una roccia alto una decina di metri, è stato costruito un forno per preparare mattoni. Absalan lavora all'impasto, metà corpo nascosto dalla malta, il busto nudo, interamente colorato dalla sabbia bianca. L'immagine di un minatore d'altri tempi. «Il lavoro è aumentato molto negli ultimi mesi. La gente si è sentita sicura e ha ripreso a ordinare materiale per ricostruire», spiega il manovale, il sudore che gli dipinge righe nere sul viso imbiancato. «Ma ora tutti hanno di nuovo paura, e la richiesta sta diminuendo. Se comincia la guerra, precipiteremo di nuovo nel baratro», sospira Absalan, mentre tre giovani donne, avvolte in coloratissimi jelbaab, osservano una nave entrare nel porto nuovo di Mogadiscio.

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