LA PAGINA 3

La Somalia in pace aspetta la guerra

Mogadiscio
MANFREDI EMILIO,Mogadiscio

Il vecchio quadrimotore Ilyushin-18 prende velocità sulla pista rattoppata. Decollando, supera dune di sabbia, sulle quali alcune capre si affaticano a brucare i radi cespugli. Poco più in là, a una decina di metri dalla zona di decollo, il mare, che negli anni ha eroso la costa fin quasi a mangiarsi via la caserma dei pompieri. Abdullahi Mohammad Ali fissa l'aeroplano prendere quota, attorniato dai muratori che stanno ricostruendo l'aeroporto. «Ho 14 anni» racconta Abdullahi, ma ne dimostra decisamente meno. Qualunque sia la sua età, già lavora. «Aiuto mio padre in un negozio di frutta, appena fuori dall'aeroporto», prosegue il ragazzino mentre due uomini, posato il fucile, dormono all'ombra di quella che era la torre di controllo. All'uscita dal terminal, a controllare una sbarra ricavata dal cannone di un carro armato, siedono altri giovani. Tuta mimetica, mitragliatori e pistole, mostrano facce dure, adulte. Ma il capo potrà avere 16 anni, i suoi soldati ancora meno. Controllano il lasciapassare per entrare in città, le armi abbassate ma bene in vista. Accanto alla postazione dei miliziani, segnata dai proiettili, un cartellone colorato saluta i passeggeri sbarcati: «Benvenuti all'aeroporto internazionale di Mogadiscio».
Dopo 11 anni di chiusura, l'Unione delle Corti islamiche, che ha strappato la città dalle mani dei signori della guerra, è riuscita a rendere di nuovo funzionante lo scalo internazionale della capitale somala. «Sulla strada che porta verso il centro c'era un posto di blocco controllato dai miliziani di uno dei tanti warlords, ma ora è stato rimosso», racconta Adaleh, uno dei responsabili della sicurezza delle Corti islamiche. «Da quando abbiamo preso il controllo dell'intera città, tutto è ritornato tranquillo», spiega sorridente, mostrando il tesserino plastificato che lo identifica. In città, infatti, si entra senza problemi, mentre i pick-up della milizia islamista pattugliano le strade con discrezione. Sembra incredibile attraversare Mogadiscio da sud a nord. Dalla caduta del dittatore Mohammed Siad Barre, la capitale - come tutto il paese - è rimasta divisa in zone controllate da signori della guerra. Nei primi anni '90 Aidid contro Ali Mahdi, ai tempi della missione Onu e di «Restore Hope». Poi, dopo la precipitosa fuga della comunità internazionale, Mogadiscio è rimasta divisa in quartieri, abbandonata. Ogni quartiere, un capo-fazione. Ogni fazione, un esercito. Blocchi stradali ovunque a impedire alla gente di spostarsi, a infliggere taglieggiamenti. Oggi la strada che conduce verso Quarto chilometro, passaggio obbligato per andare verso il centro, è un ammasso di lamiere - automobili esplose o crivellate, pezzi di carri armati T-55 -, immondizia e sabbia, tra cui si muovono bambini e animali.
In lontananza, verso il mare, si staglia l'edificio bianco che una volta fu il Politecnico di Mogadiscio. Ora, fatiscente, ospita centinaia di sfollati. All'orizzonte, una nave cargo fa rotta verso il porto nuovo della città, anch'esso riaperto dagli islamisti dopo una decina d'anni di abbandono.
Un sentiero nella foresta
Superato il Sahafi Hotel, l'«albergo della stampa» dove facevano tappa i reporter di tutto il mondo nei primi anni '90, si avanza per una lunghissima strada completamente distrutta. È Jidka Sodonka, via dei Trenta. Buche enormi, avvallamenti profondi un metro: più che l'arteria principale di una capitale sembra un sentiero nella foresta. Un'infinità di pulmini bianchi giapponesi, stipati di gente, tentano di farsi largo tra le fosse e i carretti del mercato della benzina. Non esiste nessun distributore nella capitale somala, e chiunque abbia bisogno di rifornirsi di carburante deve andare su quella che è stata ribattezzata «via del petrolio».
Proprio qui, alcuni giorni fa, c'è stato il primo episodio di insofferenza nei confronti del movimento islamico che da quasi sei mesi si è impadronito di Mogadiscio e di tutta la Somalia centro-meridionale. Dopo i banchi della benzina, all'inizio del quartiere di Bar Uba, fino a settimana scorsa veniva venduto il khat, la pianta blandamente allucinogena coltivata sui monti dell'Etiopia e del Kenya e diffusissima in Somalia. Dopo aver esitato a lungo, le Corti islamiche hanno deciso di vietare la sostanza. «Consumare, trasportare e vendere khat da oggi è illegale, come deciso dal consiglio esecutivo delle Corti islamiche», ha dichiarato venerdì Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, uno dei leader degli islamisti. La cosa però non è passata inosservata come la chiusura dei cinema in cui si proiettavano film stranieri o dei locali in cui erano trasmesse le partite di calcio. C'è sempre di mezzo la morale pubblica secondo la sharia, la legge islamica, ma stavolta vengono coinvolti anche gli affari, in un paese ridotto allo stremo da 15 anni di anarchia e guerra tra fazioni. «Stavolta molta gente non ha sopportato la decisione. Il giro di affari del khat è di almeno 500.000 dollari alla settimana», racconta Mohammed Abdi, che vive nei paraggi. Sono scoppiate proteste tra le bancarelle dei venditori. «Le manifestazioni sono state disperse dai miliziani islamisti, che hanno aperto il fuoco. Per alcune notti nella capitale è stato imposto il coprifuoco, ma da domenica la situazione è tornata alla normalità», spiega l'uomo.
Una società implosa 20 anni fa
Nelle vie laterali di Bar Uba, 14 anni fa c'erano i caschi blu pakistani. A ricordarlo, alcuni carri armati bruciati, infossati nelle strade fangose, accompagnano la vita quotidiana delle donne, avvolte nei tradizionali jelbaab. Vicino allo stadio di Mogadiscio, tra i campi sportivi abbandonati, spiccano appezzamenti di terreno stipati di tende di fortuna costruite con ogni materiale di scarto: lamiera, avanzi di frigoriferi, bombe vuote, rami secchi, stoffe, pezzi di plastica. Tutto va bene per costruire queste minuscole abitazioni dove la gente vive ammassata a decine. Sono campi per sfollati interni, arrivati in città negli anni, a causa della guerra, della fame, delle carestie o delle inondazioni che si accaniscono sulla Somalia. Un'umanità dimenticata, ultimo gradino di una società che è implosa almeno 20 anni fa. A vedere le condizioni precarie in cui la gente sopravvive, si potrebbe pensare che siano profughi arrivati da poco. Invece no. «In questo campo vivono almeno quattromila persone. Io arrivo dal villaggio di Saakow, nella regione del Basso Juba», racconta Akilaa Maalem, 35 anni e sette figli. «Sono venuta a Mogadiscio 11 anni fa, in fuga dalla guerra. Ora sono sola con i miei bambini, mio marito è morto in un combattimento», continua Akilaa, mentre con un pezzo di legno rimesta una pentola sul fuoco. Il fumo prodotto dalla legna e dalla plastica rende l'aria irrespirabile. «Lavoro con le arachidi. Le tosto e le metto nei sacchetti di plastica, poi le vendo sulla strada. Guadagno così 2.000 scellini al giorno (10 centesimi di euro, ndr), con cui compro un po' di grano», continua la donna, seduta per terra vicino a un cumulo di pattume. «Mangiamo una volta al giorno, la sera. È così da quando siamo arrivati qui. Adesso speriamo che le Corti islamiche, dopo aver riportato sicurezza, ci diano anche un lavoro, una vita migliore», insiste la donna.
Mogadiscio sembra un paesaggio lunare. La gente ora si sveglia la mattina senza il timore di non vedere il tramonto, ma la strada verso la normalità è ancora molto lunga. Mentre l'ombra di una nuova guerra pronta a travolgere la Somalia e forse l'intero Corno d'Africa è sempre più vicina. «Se ci sarà una nuova guerra, per i miei figli sarà la fine», scuote la testa Akilaa, mentre un bambino di pochi mesi, seminudo, arranca per terra, gli occhi divorati dalle mosche. Intorno a loro, un'umanità disperata pronta a diventare massa di manovra per pochi dollari alla settimana.
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