In Afghanistan tira davvero una brutta aria, sul piano politico e militare. Da una parte, il governo Karzai è sempre più debole e isolato, abbandonato dai signori della guerra e della droga, si trova costretto a trattare con i taliban, ormai in grado di colpire in tutto il paese, anche dove agisce il contingente italiano. Dall'altra, nonostante l'aumento del contingente Isaf da 6 a 15.000 uomini, il suo intreccio con Enduring Freedom e la ripresa su vasta scala del conflitto, la situazione sul campo peggiora ogni giorno. Alle sempre più pesanti e non involontarie stragi di civili (l'ultima nella provincia di Kandahar), che sembrano accomunare tutti i recenti teatri di guerra - dall'Iraq, al Libano, alla Palestina - i vertici Isaf-Nato rispondono addossando la responsabilità agli studenti del Mullah Omar, che si nasconderebbero tra la gente: anche fascisti e nazisti erano soliti giustificare in maniera simile le tante stragi di civili, sostenendo che in mezzo vi erano partigiani, o loro sostenitori.
In questi ultimi giorni, poi, il Segretario generale dell'Alleanza atlantica, De Hoop Scheffer, si è affannato a precisare che in Afghanistan non esiste una soluzione militare, per poi volare a prendere ordini a Washington su come incastrare i sempre più riottosi alleati europei nel nuovo «esercito globale», che proprio a Kabul avrebbe dovuto avere il suo battesimo di fuoco. Già, Washington: anche qui, con ogni probabilità, gli attuali equilibri saranno destinati a subire modifiche, anche se occorrerà capire in quale direzione, dopo la vittoria dei democratici alle elezioni di medio termine e la rimozione di Rumsfeld. Cosa cambierà in Iraq e Afghanistan? Quali modifiche subirà la politica estera statunitense? I «falchi» accetteranno il ridimensionamento o tenteranno di far precipitare le diverse crisi aperte nel tentativo di imporre a tutti la scelta tra il sostegno alla «guerra preventiva» o al «terrorismo»?
Si avvicina nel frattempo il vertice Nato di Riga, previsto per fine novembre, e lo smarrimento è totale: molti prospettano un intervento in Darfur, con modalità non dissimili dal Kosovo, e la Nato entra in profonda crisi proprio in Afghanistan. Uno sviluppo inatteso, tanto che il ministro degli esteri D'Alema si è recato a Kabul nel tentativo di individuare, d'accordo con Prodi, una via d'uscita, ma sarà necessario coinvolgere anche paesi sgraditi a Bush e ai vertici Ue; sarà necessario ragionare non solo con India, Pakistan, Giappone e Arabia Saudita, ma anche con Iran, Russia e Cina. Con la possibilità di ridiscutere l'intera presenza militare statunitense in Asia. Su questo, forse, la vittoria dei democratici potrebbe costituire un segnale importante.
Tutti, ormai, stanno cercando una «exit strategy» prima che sia troppo tardi. Anche coloro che la scorsa estate si sono prodigati a sostegno del rifinanziamento della missione italiana a Kabul, che hanno attaccato i senatori «dissidenti» (i fatidici otto), che hanno tentato il blitz nella Finanziaria con l'articolo 188 (rifinanziamento automatico delle missioni militari senza passare attraverso il parlamento). Questo è il segno che quella battaglia era giusta, poggiava su fatti reali che oggi, purtroppo, sono sotto gli occhi di tutti: la missione militare italiana in Afghanistan è di guerra e non di pace, in discontinuità con l'art. 11 della nostra Costituzione; i nostri militari agiscono sul campo, anche a sud, inquadrati nella catena di comando Nato-Usa; nessuna commissione di controllo parlamentare è stata istituita.
Se le condizioni rimarranno queste, sarà difficile non votare contro il prossimo rifinanziamento, anche in virtù di un aumento delle spese militari, pari al 5% in più rispetto al precedente governo. Oltre al miliardo di euro per le missioni, si ragiona di una cifra pari a 12 miliardi e 437 milioni utilizzata in parte per l'acquisto di nuovi armamenti (dalla portaerei Cavour agli Eurofighters) e si prevede l'acquisto di 249 blindati - che possono salire a 500 - per operazioni di guerra (come affermato dal sottosegretario alla difesa Foricieri, utilizzabili di fatto anche in Libano), con torrette per il lancio di missili anticarro di fabbricazione israeliana e al costo di 6 milioni di euro cadauno.
Senza alcun atteggiamento di statica dietrologia, occorre rilanciare l'intero movimento contro la guerra - a partire dal ritiro immediato del nostro contingente dall'Afghanistan. Occorre, in una parola, costruire il «4 novembre» dell'Afghanistan e del No al riarmo, riprendendo la lotta e le mobilitazioni.
* senatore Prc e capogruppo Prc in commissione difesa del Senato;
** senatrice Italia dei Valori