Si arroventa l'aria in Somalia. Dopo il fallimento dei colloqui di pace tra Corti islamiche e governo di transizione (Tfg), saltati lunedì scorso a Khartoum, la tensione monta. Tutto lascia presagire uno scontro campale per il controllo della capitale provvisoria, Baidoa. Proprio nei dintorni della città, abitanti contattati dal manifesto raccontano come i miliziani del Tfg stiano costruendo trincee a protezione degli accampamenti militari. Accanto a loro, presenza non più nascondibile, altri soldati che parlano una lingua diversa dal somalo. Sono le truppe etiopiche, la cui presenza è stata sinora smentita da Addis Abeba, ma che per i residenti di Baidoa non è più segreta. Ancor meno da quando, due giorni fa, i militari etiopici hanno preso il controllo dell'ospedale di Baidoa. Una manovra che ha una sola spiegazione: guerra. A poche decine di chilometri di distanza, anche gli islamisti si preparano alla battaglia. Nella giornata di ieri, da Mogadiscio, capitale storica della Somalia, e centro di comando delle Corti Islamiche, i miliziani testavano razzi appena recapitati in città.
A infiammare ulteriormente la situazione è giunta un'informativa Usa secondo cui gli islamisti starebbero preparando attentati contro obiettivi strategici e cittadini americani in Etiopia e in Kenya. Un'affermazione subito smentita da Mogadiscio: il responsabile dell'informazione degli islamisti, Abdirahman Ali Mudey, ha accusato gli Usa di «fomentare missioni suicide ad Addis Abeba e Nairobi per poi accusare le Corti degli attentati». Fonti riservate contattate nell'area hanno dato vigore all'ipotesi, parlando di un piano dell'intelligence etiope per colpire obiettivi selezionati in Etiopia, Kenya e Somalia, utilizzando profughi somali, per poi fare ricadere la responsabilità su Mogadiscio. A quel punto, sempre secondo queste fonti, Addis Abeba giustificherebbe la reazione militare.
Sembra davvero finito il tempo del dialogo. Ma venerdì, con una mossa a sorpresa, il portavoce del parlamento del Tfg, Sharif Hasan Sheikh Adan ha spiegato di sentirsi obbligato a prendere l'iniziativa per tentare di rilanciare il negoziato, recandosi nel weekend a Mogadiscio per incontrare i vertici degli islamisti. Prima figura di rilievo del Tfg a recarsi nella capitale, il portavoce ha dichiarato: «Guiderò una delegazione parlamentare per cercare cooperazione e evitare spargimenti di sangue e riaprire ad un dialogo efficace». Il portavoce ha parlato della necessità di superare il fallimento dei colloqui di Khartoum, aggiungendo di non voler dare il via a un negoziato alternativo, ma di muoversi proprio come responsabile del Parlamento. Insomma, afferma Sheikh Adan, non si tratta di un salto di barricata, ma di un tentativo di diminuire la tensione. Di certo, la mossa è stata concordata con i vertici di Mogadiscio (Adan, nelle scorse settimane, si è incontrato in Arabia saudita con i massimi vertici delle Corti). A conferma di questa ipotesi, sono giunte ieri le parole del responsabile dell'informazione del movimento islamico. «Estendiamo al governo i negoziati per una riconciliazione pacifica, così da risolvere le nostre differenze incontrandoci nella nostra terra», ha affermato Ali Mudey. Il piano sulla carta può avere successo, anche perché Sheikh Adan sa di avere dalla sua la maggioranza del parlamento. Di certo contrari al piano sono il primo ministro Ali Ghedi e l'Etiopia. Nella serata di ieri, il consiglio dei ministri del Tfg si è opposto al viaggio di Sheikh Adan, chiedendo al portavoce del Parlamento di riconsiderare il suo progetto e attendere una presa di posizione unitaria del governo. Ma se l'incontro con le Corti andrà bene, il portavoce del parlamento potrebbe anche decidere di convocare i deputati a Mogadiscio, aprendo nuovi scenari.
Nella comunità internazionale, ormai vi è una spaccatura evidente. Il Kenya sostiene di voler evitare lo scontro, appoggiato in questo dall'Unione europea (Italia in testa) e dalla Lega Araba. A riguardo, Mario Raffaelli, inviato speciale del governo italiano, ha speso parole di incoraggiamento per la missione di Sheikh Adan a Mogadiscio. L'Etiopia, invece, incita Ghedi nella linea dura e morde il freno per andare allo scontro armato. Sempre con il supporto fattivo degli Stati uniti.