VISIONI

Memorial Sinopoli, omaggio e non solo

GAMBA MARIO,

Taormina L'allegretto conclusivo della Sinfonia n. 9 di Sostakovic ha consolato chi si era fatto deprimere assai dall'andamento del Festival Sinopoli a Taormina. L'Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai con un efficace Gianandrea Noseda sul podio ha funzionato bene. Quella Sinfonia è molto classicheggiante, ma arguta, persino scapestrata. A tratti, come nell'asciutto dolente secondo movimento, si abbandona a suggestioni espressioniste, altrove, come nel terzo movimento, evoca danze popolari e di corte, nel finale prende un tono epico ma senza trionfalismi.
Esattamente quello che non volevano nel 1945 Stalin e tutto lo staff che sorvegliava (e puniva) in Urss il lavoro degli artisti. E la Sinfonia n. 9 doveva celebrare la vittoria nella II guerra mondiale. Sostakovic la celebrava benissimo, ma a modo suo, compositore sommo per maestria e intellettuale dalla mente libera. Se la cavò con critiche ufficiali e reprimende.
A voler essere cattivi, si potrebbe dire che è andata peggio a Giuseppe Sinopoli nel corso di questo festival di quattro giorni (19-22 ottobre) al Palazzo dei Congressi di Taormina, durante il quale l'associazione Taormina Arte ha voluto certamente celebrare, per il secondo anno consecutivo, la figura poliedrica del direttore d'orchestra (e compositore nella prima parte della sua carriera) morto il 20 aprile del 2001. Serio il convegno di archeologi, presentato come centrale in tutto l'evento, bella la piccola mostra di antichissimi tesori della collezione di Sinopoli, a sua volta studioso di archeologia, ben fatta la presentazione da parte di Sandro Cappelletto del volume Il mio Wagner (editore Marsilio), raccolta delle conversazioni tenute da Sinopoli sulla Tetralogia. È nella nutrita sezione musicale, inevitabilmente decisiva in sede di bilancio, che alla figura di Sinopoli non si è reso un buon servizio.
Durante il concerto dell'Orchestra Rai, aperto con una interpretazione generosa di affetti del celebre Adagio dalla Sinfonia n. 10 di Mahler, abbiamo ascoltato di Sinopoli un lavoro del 1978, Tombeau d'armor III. C'è nella parte iniziale un procedimento «per frammenti» dell'orchestra contrastato senza asprezza dal fraseggiare decisamente lirico e cantabile (con sapori viennesi) del violoncello (solista l'ottimo Peter Bruns). Poi tutto si fa più complesso e anche più «organico» tra orchestra e strumento solista, con ampi spazi meditativi in cui prevalgono i frammenti di linee, anche se il violoncello accenna a timidi ritorni sui territori del canto e si lascia tentare da virtuosistiche cadenze disinteressanti.
Rimane, all'ascolto, un'impressione di artefatto, di non vissuto, come se a Sinopoli il mestiere del comporre risultasse estraneo, come se i modelli del grande concerto classico fossero omaggiati ma non rigenerati, come se le suggestioni della modernità radicale lasciassero l'autore inerte, non convinto. Rimane l'impressione di qualcosa di arido, non certo la presunta «aridità» di un Boulez (animato da passione razionalista, semmai) a cui il ciclo Tombeau d'armor (i primi due episodi sono per sola orchestra) è stato dedicato.
Ma questo era il Sinopoli compositore non al meglio della sua attività. Un documento comunque importante e dignitoso. Il disastro, in nome di Sinopoli e utilizzando testi letterari suoi veramente debolissimi, è stato consumato con una produzione originale del Festival, un'azione musicale con danza commissionata a due compositori romani all'incirca cinquantenni, Michele Dall'Ongaro e Matteo D'Amico. Aristaios il titolo (che era anche il titolo dell'intera rassegna), due testi dai Racconti dell'isola di Sinopoli dove emerge il suo culto della memoria, delle origini, del mito, del senso dell'eterno, divisi equamente tra il primo e il secondo compositore, un identico organico per le due partiture: il quartetto di sassofoni Accademia, il quartetto d'archi Bernini, il flauto solista di Monica Berni, le percussioni di Antonio Caggiano, la cantante Susanna Rigacci, la voce recitante di Michele Placido. In più, quattro danzatori coordinati dal regista (?!) Renato Giordano.
Della parte «teatrale» con nudi di prammatica e allusioni mitologiche si vorrebbe non dir niente: il livello era quello della recita per il compleanno del nipotino. Della parte musicale non c'è da dire molto di più. Se non che un'«introduzione» per solo violoncello di Dall'Ongaro fatta di lunghe note alternate a pizzicati in atmosfera di cantabilità irregolare ma cordiale faceva sperare qualcosa. Sempre Dall'Ongaro ha tentato spunti simil-improvvisazione free con i sax. Simpaticamente goffi e insipidi. Per D'Amico buio fitto, a cominciare dagli unisoni banali dei due quartetti. E meno male che Placido si è fatto ammirare per misura e musicalità. Eppure i testi che gli sono toccati potevano ammazzarlo.

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