«Neppure quando India e Pakistan hanno fatto esplodere le loro bombe nucleari, gli Stati uniti si sono mossi così aggressivamente. E parliamo di paesi con una popolazione complessiva di un miliardo e duecento milioni di abitanti, contro i ventidue milioni della Corea de Nord» dice Ri Kong Son, vice portavoce del ministero degli esteri nordcoreano. La replica di Pyongyang alle reazioni mondiali dopo il test atomico di lunedì non si sono fatte attendere. Come era prevedibile il governo nordcoreano, nella persona di Ri, ha ribattuto affermando che «il test è da attribuirsi solo alla minaccia nucleare rappresentata dagli Usa, alle loro sanzioni e alle loro pressioni sulle Nazioni unite».
Ma altrettanto pronosticabile era l'ammorbidimento delle nazioni più direttamente interessate all'inasprirsi delle tensioni: Cina e Sud Corea. La prima ha letteralmente ribaltato le «sanzioni punitive» chieste dal suo ambasciatore all'Onu Wang Guangya, smussate dal portavoce del ministro degli esteri Liu Jian-chao che ha ricordato come «la punizione non deve essere l'obiettivo finale» della risposta Onu e che la Corea del Nord, dal canto suo, dovrebbe capire di aver commesso un errore. La Corea del Sud è stata ancora più cauta, dissociandosi dalle richieste Usa e sospendendo temporaneamente solo l'invio di riso al Nord. Seoul è l'unica capitale che ancora nutre dubbi sul test nucleare. «Non abbiamo riscontrato aumenti significativi di radioattività» ha specificato Han Seung-jae, dell'Istituto della sicurezza nucleare coreano.
Solo il Giappone, con il nuovo primo ministro ultranazionalista Shinzo Abe, si è affiancato agli Stati uniti nell'invocare sanzioni. Anzi, Tokyo si è spinta ancora più in là bloccando tutti i conti bancari del Chongryun, la potentissima organizzazione dei nordcoreani residenti in Giappone, i cui fondi sono il principale approvvigionamento di moneta forte di Pyongyang. Ha inoltre unilateralmente bandito navi e voli nordcoreani nelle proprie acque e spazi aerei. Queste ritorsioni hanno fatto ripetere a Song Il Ho, rappresentante di Pyongyang a Tokyo, che il suo paese «prenderà forti contromisure» senza specificare quali, aggiungendo che il Giappone sta sfruttando la questione nordcoreana per diventare di nuovo una potenza militare. Tesi, questa, condivisa anche da Seoul, Pechino e Taipei.
Nel frattempo nella capitale norcoreana il test nucleare non ha oscurato le celebrazioni per il 61° anniversario della fondazione del Partito del Lavoro, festeggiato con un concerto dell'Orchestra sinfonica nazionale al teatro Moranbong. La partita diplomatica la si sta giocando in sordina. Kim Yong-nam, numero due del regime, ha fatto sapere che ogni pressione statunitense al Consiglio di sicurezza verrà considerata come «una dichiarazione di guerra» e che «un eventuale secondo test nucleare è legato alla politica Usa verso il nostro paese. Se gli Stati uniti continueranno ad assumere un comportamento ostile e ad applicare qualsiasi forma di pressione sulla Corea del Nord, non avremo altra scelta che prendere contromisure fisiche per fronteggiare gli attacchi e difenderci». La tesi dell'autodifesa è ribadita dal vice di Kim Jong Il: «Abbiamo dovuto compiere i test nucleari - ha detto - per proteggere la sovranità del nostro paese e il diritto alla nostra esistenza dal pericolo ogni giorno crescente di guerra che gli Usa stanno portando nella regione». Parallelamente Pyongyang ha ufficialmente chiesto di riaprire colloqui diretti con Washington, una possibilità prontamente rifiutata da Bush, che non ha mai voluto ragionare con il governo di Kim Jong Il.
Per Scott Snyder, esperto di Nord Corea all'Asia Foundation di Washington e autore del libro «Negotiating on the Edge: North Koran Negotiation Behavior», lo scoppio nucleare sarebbe diretto verso Bush come «invito» al tavolo delle trattative. «Secondo Pyongyang, gli Usa non consideravano la Corea del Nord alla loro stregua perché non possedeva l'atomica. Ora che anche la nazione nordcoreana è entrata a far parte del club nucleare, i generali di Kim Jong Il sperano di essere trattati a pari livello dei loro colleghi di Washington». Il dialogo è l'unica soluzione possibile non solo per la Cina, la Corea del Sud, ma anche per lo stesso Kofi Annan, che ieri ha detto: «Credo che Usa e Nord Corea dovrebbero parlarsi. Lo hanno già fatto nel passato». Ma nel passato Bush era in Texas, mentre alla Casa Bianca c'era Bill Clinton e l'atteggiamento delle due amministrazioni verso i dirigenti del paese asiatico è stato diametralmente opposto. Tutti, infatti, qui a Pyongyang, ricordano la storica stretta di mano tra Kim Jong Il e Madeleine Albright. E tutti ora auspicano che anche una Condoleezza Rice segua le tracce del suo predecessore.