IL CAPITALE

La flessibilità non aiuta l'occupazione

TAJANI CRISTINA,

La pubblicazione, avvenuta un paio di settimane fa, della rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro ha riacceso il dibattito sugli «effetti» occupazionali della legge 30 e, più in generale, della flessibilizzazione del mercato del lavoro. Il II trimestre del 2006, infatti, ha visto un aumento record degli occupati pari a più di mezzo milione di persone in confronto con lo stesso periodo dell'anno precedente. Il nostro paese ha assistito, negli ultimi anni, ad un miglioramento di quasi tutti gli indicatori occupazionali mostrando un tasso di crescita dell'occupazione sensibilmente superiore al tasso di crescita del Pil.
L'ultima rilevazione dell'Istat segnala che nel secondo trimestre 2006 l'offerta di lavoro (l'insieme degli occupati e dei disoccupati) è salita, rispetto al secondo trimestre 2005, dell'1,3 per cento (+320.000 unità). Confrontando il II trimestre 2006 con lo stesso periodo dell'anno precedente il saldo occupazionale è positivo ed è pari a 536 mila occupati in più. Il numero delle persone in cerca di occupazione ha manifestato un calo dell'11,8 per cento (pari a -216.000 unità) in confronto a un anno prima. Al netto dei fattori stagionali il tasso di disoccupazione è passato dal 7,3 del primo trimestre 2006 al 7,0 del secondo trimestre 2006, un vero e proprio record positivo.
Se poi guardiamo al medio periodo, il tasso di disoccupazione in Italia è diminuito di oltre un punto e mezzo nell'arco di un quinquennio, passando dal 9,1 del 2001 al 7,7 del 2005 (diventato addirittura 7% nel II trimestre del 2006).
I contributi più importanti alla crescita dell'occupazione sono sostanzialmente due e derivano dalla componente straniera (+224 mila unità nel I e +162 mila unità nel II trimestre 2006) e dai lavoratori a tempo determinato (+ 211 nel I trimestre 2006 rispetto all'anno precedente e +120 mila nel II trimestre). Un ulteriore contributo deriva poi, negli ultimi trimestri, dalla popolazione con età superiore ai 50 anni.
Molti osservatori tra coloro che si sono spesi nel sostenere la flessibilizzazione dei contratti non hanno esitato ad attribuire questo risultato alle riforme del mercato del lavoro, invocando ulteriore flessibilità. Ad un'analisi rigorosa, però, non è consentito porre sullo stesso piano il contributo, in termini di crescita occupazionale, che deriva dalla componente straniera con quello che deriva dal lavoro a tempo determinato. In altre parole, a voler essere rigorosi, non si possono trattare queste due componenti di crescita come «effetti» rispettivamente della sanatoria del 2002 e dei provvedimenti legislativi entrati in vigore con la legge 30, nel 2003. Si può parlare di «effetto occupazionale» solo se il nesso di causa-effetto tra un intervento pubblico (la legge 30 o la sanatoria del 2002) ed i risultati prodotti sulla variabile di interesse (nel nostro caso la crescita occupazionale) può essere stabilito con rigore e in qualche modo quantificato (la letteratura sulla valutazione di impatto si occupa proprio di fornire strumenti teorico-quantitativi idonei a stabilire il nesso di causalità tra due eventi). In Italia sono ancora pochi i contributi teorici ed empirici che analizzino questa problematica in una prospettiva controfattuale: la domanda non è tanto quella che si interroga su cosa è successo all'occupazione dal 2002-2003 in poi, ma piuttosto quella che si interroga sul cosa sarebbe successo se quegli interventi non fossero stati attuati. Nel caso della cosiddetta sanatoria è facile stabilire un nesso causale: senza quell'intervento 650 mila lavoratori non sarebbero emersi nelle statistiche occupazionali (si tratta qunidi di un effetto statistico e non strettamente economico).
Proprio l'Istat ha ammesso che gran parte dell'incremento occupazionale osservato è riconducibile ad un effetto statistico-contabile che si spiega attraverso il graduale inserimento dei lavoratori immigrati nella popolazione residente, dopo la sanatoria del 2002. Fenomeni analoghi, seppur in proporzioni inferiori a causa del numero minore di lavoratori stranieri interessati, si sono osservati in seguito alle sanatorie del 1990, 1995, 1998.
Nel secondo caso, invece, non è lecito nominare come «effetto» occupazionale della flessibilità tipologica la quota di lavoro «atipico» di volta in volta prodotto sul mercato del lavoro. In questo caso la domanda da porsi è se quella frazione di occupazione sarebbe stata prodotta anche senza gli interventi di flessibilizzazione delle tipologie contrattuali. È possibile che la risposta a questa domanda possa essere negativa ma, come già accennato, i contributi empirici che si attengano a questa logica controfattuale sono ancora pochi. In attesa che la letteratura si arricchisca, ci dovremo limitare a guardare l'occupazione prodotta attraverso impieghi «non standard» semplicemente come un «fatto» e non come un «effetto».
* Univeristà di Milano

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