POLITICA & SOCIETÀ

«La mia vita per una Black Panther»

RICCIO ALESSANDRA,

La libertà è inebriante, mi dice Silvia Baraldini con gli occhi che scintillano. Dopo 24 anni in cui la sua libertà è stata coercita con 19, terribili, mesi di isolamento, con anni e anni di carcere in diversi Stati degli Usa, e per finire con una «detenzione domiciliare» ottenuta con una decisione della nostra Corte costituzionale, l'irriducibile Baraldini può tornare a disporre delle sue ore e del suo tempo nella Roma in cui è arrivata, dopo una dura battaglia con le autorità statunitensi, malata e stanca ma giusto in tempo per accompagnare l'anziana madre nel momento della morte. Da quando la sua unica sorella era perita in un drammatico incidente aereo, dalla sua immacolata e sorvegliatissima cella, la Baraldini aveva capito e accettato, per la prima volta nella sua vita di impegno militante, che c'erano degli affetti, degli obblighi e delle responsabilità più importanti di altri: «Riunire questa famiglia di due persone è diventato l'obbiettivo principale. Per questo ho firmato l'accordo che mi consentiva di tornare in Italia e per questo, prima di atterrare a Roma, ho sottoscritto, quasi ad occhi chiusi, la trasformazione della sentenza americana nei termini della nostra giurisprudenza». Quella condanna americana per reati associativi (evasione e tentata rapina) in base al dispositivo della legge Rico, una legge fatta apposta per colpire la mafia, è stata aggravata dalla Corte d'appello di Roma con il reato di estorsione per una mera questione accademica, ma questo ha significato che, invece di finire la condanna il 29 marzo 2008, Silvia sarebbe tornata in libertà il 29 luglio.
Ma ora questi quattro mesi che le pesavano come macigni non hanno più importanza, Silvia torna ad essere libera dopo aver scontato i reati che ha commesso e che non rinnega, e cioè quelli di aver partecipato, svolgendo un ruolo logistico secondario, all'evasione della giovane «Pantera Nera» Assata Shakur, condannata a 120 anni di carcere per «essere stata presente durante la sparatoria in cui sono morti il suo compagno e un poliziotto». Gli occhi azzurri di Silvia sono lucidi quando ricorda la traiettoria di questa studentessa nera di New York, coraggiosa militante in un partito di cui l'Fbi aveva decretato l'annientamento attraverso un programma (il Co.Intel.Pro) di repressione dei tremila iscritti e molte brutalità, come l'uccisione a Chicago di Fred Hampton. In questo clima di emergenza il partito aprì un dibattito aspro che vide i militanti della West Coast a favore della mobilitazione dell'opinione internazionale e della lotta per vie legali, mentre quelli della East Coast, come Assata, più propensi alla clandestinità.
«Giovane, bella, donna e nera, l'Fbi non esita a farne una specie di primula rossa delle Pantere nere. Non c'è reato di cui non venga accusata e quando viene fermata sull'autostrada fra New York e Washington e ferita in una sparatoria la cui dinamica non è mai stata chiarita, su di lei si scatenano sette processi». E' stata ferita sotto l'ascella - il che dimostra che era con le mani in alto - maltrattata, processata, assolta in sei processi su sette ma condannata comunque a 120 anni di carcere.
«Per chiarezza politica ho riconosciuto il mio ruolo nell'evasione di Assata perché ero persuasa che andasse liberata. Buttata nello scantinato di un carcere maschile, incinta, ha dovuto partorire barbaramente. Il movimento di opinione contro questi abusi era fortissimo e io che facevo parte del suo comitato di difesa legale ero convinta che l'evasione fosse l'unica soluzione, anche se il prezzo da pagare è stato altissimo, perché io non sono stata incastrata, sono stata castigata con una sentenza fortemente punitiva. 40 anni di condanna sono incomprensibili». Per gli altri che insieme a lei hanno lavorato a quell'impresa (2 donne, una assolta, e 4 uomini), ci sono stati otto processi e le condanne sono state pesantissime. Ma perché si sono lasciati prendere? «Sapevo che mi avrebbe interrogato il Gran jury per la mia attività politica pubblica. Avevano già cercato di incolparmi di una rapina ma ho dimostrato che in quel momento ero in Africa. Non potevo immaginare che avrebbero usato la legge Rico che ritiene colpevoli del delitto tutti coloro che appartengono al gruppo accusato. L'uso della Rico contro i politici era nuovo e noi eravamo impreparati».

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