VISIONI

Se l'improvvisazione è una sfida sempre aperta

GAMBA MARIO,Lodi

Dev'essere il momento dei decennali. Dopo il festival sardo Le isole che parlano tocca al festival lombardo ContemporaneaMente celebrare la decima edizione. Risultato lusinghiero anche in questo secondo caso: si tratta di una rassegna di musiche radicali in una piccola città di provincia, Lodi. Rassegna allestita con pochi mezzi, molto pubblico e, come nel caso del festival di Palau, con musicisti del posto, da tempo «in carriera», nella veste di direttori artistici. Addirittura tre stavolta: il violinista Aldo Campagnari per la sezione che reca il titolo generale/parziale ContemporaneaMente riservata alla musica contemporanea di origine «dotta», il pianista Alberto Braida e il clarinettista Giancarlo Locatelli per la sezione riservata alla musica di improvvisazione e intitolata Il suono dell'istante. La sfida del festival è chiara: allineare e in prospettiva futura mischiare musiche d'oggi (includendo musiche del '900 anche «storiche») nelle quali domina la scrittura con altre nelle quali la scrittura manca del tutto, ma ovviamente nella prima sezione può succedere che alcune forme di scrittura sovvertano i criteri tradizionali fino a sfiorare l'idea improvvisativa e nella seconda sezione può succedere che l'assenza di pentagramma riveli un pensiero «compositivo».
Nel caso delle Quattro illustrazioni (1953) l'assai eterodosso autore Giacinto Scelsi raccomandava un'esecuzione «romantica e come improvvisata» (del resto le sue musiche, poi trascritte, nascevano tutte dalle sue improvvisazioni notturne). E il pianista Fabrizio Ottaviucci, mirabile protagonista di una delle serate-clou (19 settembre), le ha suonate in modo lineare, sciolto, spontaneo, romantico e all'impronta come potrebbe essere un Keith Jarrett di alto livello (esiste e non è da buttare come pensano certi puristi tignosi).
Una delizia, un prodigio di grazia l'esecuzione da parte di Ottaviucci di quattro Sonate e un Interludio per pianoforte preparato di John Cage. Pezzi amabili, luminosi (pur nel loro conclamato «ottundimento» della sonorità), persino lirici, capaci una volta ancora di sorprendere. Ha ben assecondato, Ottaviucci, il György Kurtág degli otto Klavierstücke op. 3. Che a un certo punto incrocia i guantoni con la tastiera (metaforicamente, per via dell'asprezza dell'episodio, e fisicamente, per via dell'indicazione allo strumentista di infilarsi solidi guanti) e chiude la serie con ampi accordi «alla Liszt». Lui è un grande musicista anti-sistema. Difficile immaginare un interprete migliore di Ottaviucci per gli spregiudicati ornamenti, guizzi decorativi e tempeste di Only connect di Stefano Scodanibbio. E ancora dinamismo implacabile coniugato con una grazia infinita nei Keyboard Studies di Terry Riley (1964), il primo straordinario Riley che se ne sbatteva degli esotismi misticheggianti di tante pagine successive (e attuali, purtroppo).
Precisi, arguti e anche un po' superficiali i quattro percussionisti dell'ensemble Via Nova. Due sono bulgari, Alexander Kamenarov e Georgi Varbarnof, uno è altoatesino, Philipp Lamprecht, uno è austriaco, Rupert Struber. La componente nazionale ha forse pesato nella scelta di dedicare tutta la chilometrica seconda parte del loro concerto (18 settembre) a canti e danze tradizionali bulgare trascritte per marimbe vibrafoni e tamburi. Nella prima parte hanno suonato bene musica contemporanea. Con gli strumentini «domestici» impiegati genialmente da Steve Reich per Music for Five Pieces of Wood. Virtuosi consumati in un epidermico Organum del giovane Jürgen Neuhofer, si sono misurati con impegno con il fantastico, incomparabile Stück di Wolfgang Rihm. Si può definirlo un «divertimento» anche gestuale: i musicisti, sdraiati per terra davanti ai loro strumenti, hanno seguito le linee dei battiti irregolari eppure consequenziali distribuiti con inesauribile inventiva in un clima di astrazione cordiale.
Se la leggerezza è una virtù, il trio di improvvisatori svizzeri Koch-Schütz-Studer - e qui siamo entrati in zona Il suono dell'istante - non è fatto di virtuosi. Dal punto di vista delle capacità interpretative lo sono, eccome, non lo sono dal punto di vista dello spirito della loro musica. Ma a loro non importa essere virtuosi in questo senso: loro seguono dal 1990, anno nel quale hanno cominciato a lavorare assieme, un programma di musica terrifica, angosciosa, agitata. Del resto con l'hardcore chamber music di cui sono esponenti originali dichiarano apertamente il loro debito con forme di post-punk.
Hans Koch, solista di clarinetto basso, sax tenore e laptop, è l'uomo che permette al gruppo di volare alto. Borbottii, suoni «succhiati», note improvvisamente acute e puntate, sorprendenti sequenze quasi soft vagamente cantabili con un suono «alla Jimmy Giuffre»: questo campionario di meraviglie ha reso sempre interessante il concerto del trio (20 settembre). Durante il quale il percussionista Fredy Studer ha spesso battuto un tempo rock, poi lo ha frastagliato, poi ha estratto dai suoi strumenti suoni metallici continui in sintonia con i suoni artificiali dei computer di Koch e di Martin Schütz, solista di violoncello acustico ed elettrico.
Si è ascoltato a Lodi anche il caro vecchio jazz. Jazz «avant» un pochino, molto eclettico. Purtroppo una performance modesta quella del trio tedesco-americano Nickendes Perlgras (21 settembre) formato da Michael Thieke al clarinetto contralto, al sax alto, al clarinetto in si bemolle, da Michael Anderson alla tromba e da Eric Schaefer alla batteria. Thieke, che è di gran lunga il musicista più stimolante del trio, ha tralasciato il suo vocabolario di estrema rarefazione per tessere con i partner temini finalini e prudenti polifonie, il tutto senza quel groove caldo che serve al vero jazz. Il festival si conclude oggi con un'«opera in tempo reale» di Gino Robair, celebre compositore e percussionista californiano. Ispirata a Joshua Norton, autoproclamatosi il 17 settembre 1859 imperatore degli Stati uniti. Un imperatore molto molto libertario.

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