VISIONI

Racconti e pensieri ad alta voce di Laurie Anderson sulla Nasa

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LORRAI MARCELLO,Milano

Un assortimento di mini-racconti, di pensieri a voce alta, The End of the Moon, che si nutre abbondantemente dell'esperienza di Laurie Anderson come «artista residente» alla Nasa, e che in scena si traduce in una esibizione non esattamente spaziale: una poltrona, una piccola galassia di candele accese, una tastiera, un violino, uno schermo su cui appaiono in bianco e nero dettagli di immagini riprese sul palco, e sul fondo la proiezione della traduzione in italiano dei testi interpretati dalla performer. Ha un bel dire, Laurie Anderson, che ormai anche tecnologie parecchio complesse si sono miniaturizzate, sono quasi tascabili. Ma che i ritrovati utilizzati risultino poco appariscenti non è la parte fondamentale dell'impressione di un che di pauperistico: un paradosso, quello di parlare della Nasa con pochi mezzi, che potrebbe essere divertente, funzionale a uno sguardo disincantato sull'universo. Però in The End of the Moon c'è qualcosa di più della ricerca di un linguaggio essenziale: c'è qualcosa che fa pensare alla penitenza. Certo per una persona intelligente e sensibile non deve essere facile avere come patria la superpotenza più super di tutte; e chi vede che - come racconta la Anderson - le più avveniristiche soluzioni in materia di tute spaziali più che su navicelle finiscono poi sul più terrestre deserto dell'Iraq, è comprensibile che possa prendere le proprie distanze assumendo un atteggiamento francescano: a rischio però di spuntare le proprie armi.
Nata come musicista-performer nell'ambiente del minimalismo e delle gallerie d'arte degli anni '70, già in quel decennio Laurie Anderson si produceva in one-woman show di folgorante originalità e appeal; l'exploit di O Superman sanciva il suo talento all'interno di un drappello di artisti capaci di coniugare avanguardia e consumo, innovazione estetica e capacità di parlare al pubblico largo; con United States poi avrebbe mostrato la padronanza di un sofisticato, vivace linguaggio multimediale sulla misura di uno spettacolo di ampio respiro; e a partire da O Superman avrebbe dato in una serie di dischi eccellente prova di sé nel campo del rinnovamento della forma-canzone. Un campo, quest'ultimo, purtroppo poi progressivamente abbandonato.
La fisonomia dell'esibizione proposta al Teatro Manzoni in apertura della nuova stagione di Aperitivo in Concerto (e ieri a Torino per Settembremusica) non è infatti nuova per la Anderson, che già da anni lascia abbastanza a bocca asciutta gli ammiratori delle sue precedenti realizzazioni. Ma pare di vedere una ulteriore tendenza alla sottrazione di elementi. In passato questi suoi «reading» coinvolgevano per esempio più riccamente l'aspetto video, e concedevano qualcosa di più alla musica, ora ridotta a siparietti classicheggianti col volino, o con le tastiere a mo' di gamelan, non particolarmente degni di nota, e a leggeri tappeti sonori sotto il parlato: un po' poco per arrivare senza fatica in fondo a una esibizione che dura quasi cento minuti, quasi tutti di voce recitante. Si dirà che anche i poeti fanno dei reading: ma lì il valore aggiunto è nel passaggio della parola dallo scritto alla voce del suo autore, mentre qui invece che di valore aggiunto si potrebbe parlare di valore tolto, dalla parola cantata alla parola parlata e basta, o quasi. E Laurie Anderson non è Carmelo Bene. Resta fondamentalmente l'eleganza dell'equilibrio fra ironia, humour, e sguardo malinconico se non dolente sul mondo, e la qualità di alcuni passaggi delle storie e delle riflessioni che la Anderson racconta: lei, per esempio, che frequentando la Nasa familiarizza con gli elementi che possono dirci l'età delle stelle, e si rende conto per la prima volta «di vivere all'interno di un enorme orologio».

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