CULTURA

I costi e i ricavi delle differenze

Economiste femministe a convegno
MAGNANI ELISABETTA,

Si è da poco conclusa la quindicesima conferenza annuale della International Association for Feminist Economists (Iaffe), organizzata dall' Università di Sydney. Tre giornate di incontri, seminari, sessioni plenarie, che hanno coinvolto oltre duecento partecipanti provenienti da più di trenta paesi. Un programma ambizioso composto da oltre cinquanta sessioni parallele con il chiaro scopo di lasciare un segno nel panorama delle conferenze accademiche incentrate su temi economici. È lecito dunque tirare qualche somma su come è possibile «fare differenza» quando si tratta di economia.
Una breve premessa storiografica è forse necessaria. La Iaffe è una organizzazione non-profit che dal 1990 «intende promuovere un'indagine femminista su questioni economiche». Secondo le Feminist economists, la struttura fondamentale dell'economia insegnata nella maggior parte degli atenei dell'Occidente fa riferimento a un insieme di assiomi derivanti da una visisone del mondo secondo la quale alla base dell'agire economico vi sarebbe un individuo asessuato che non avrebbe altre determinazioni se non quelle ben note dell'homo oeconomicus. È questa reductio ad unum che dall'inizio degli anni Settanta il pensiero femminista ha contributo a contrastare proponendo un progetto di ricerca indipendente e a tratti fortemente innovativo. La posta in gioco sarebbe ben più che il semplice studio dello svantaggio economico che distingue le donne dagli uomini, perché la decostruzione dell'«individuo assiologico» è - e Amartya Sen l'ha ben spiegato - la strategia vincente per smontare il riduzionismo della visione economica, in base al quale l'esperienza umana si esaurisce in una pratica contabile della razionalita strumentale per la massimizzazione del profitto. Da qui la artificiale separazione tra discorso normativo e discorso positivo, ovvero l'idea secondo cui ci sono due tipi di argomenti economici: quelli che fanno riferimento a un insieme di valori più o meno universali, e gli argomenti che affrontano le questioni economiche con un piglio manageriale.
La quindicesima conferenza mondiale della Iaffe conferma un numero di osservazioni e critiche fatte in altri contesti a proposito della Feminist Economics. In primo luogo appare chiaro che se l'obiettivo è unicamente lo studio dei fattori che ostacolano il raggiungimento di una presunta uguaglianza economica tra uomini e donne non è necessario sovvertire i fondamenti dell'economia. In secondo luogo conferma che la creazione di un pensiero economico femminista propositivo paga lo scotto degli universalismi imposti in altre discipline e in altri contesti. In terzo luogo che la bilancia pende ancora, e forse troppo, dal lato dei sostenitori dell'empiricismo femminista che dominano la scena della Feminist Economics. Degli otto gruppi tematici della conferenza sette erano infatti dominati da studi, per lo più empirici, che indagano i modi differenziali che caratterizzano l'accumulazione di capitale umano di donne e uomini; gli effetti discriminanti di politiche fiscali o del libero mercato o quelli che emergono all'interno del nucleo familiare; l'analisi dell'impatto di attività di provvigione di cura e assistenza ai bambini e anziani sulle donne. Si privilegiano insomma le differenze economiche misurabili a scapito di un modo di fare differenza che è più una potenza che un essere (vittime). Nell'operare per una società senza differenze di genere (o di classe, di razza, di etnia o di cultura) senza attaccarne i fondamenti simbolici e culturali che generano tali sperequazioni si può correre il rischio di delineare «società ideali» i cui modelli di vita, di pensiero e di comportamento economico sono quelli propri del gruppo dominante, quello maschile di razza bianca di cultura occidentale, per intenderci.
Dei contributi rimanenti appare evidente l'intento di indagine filosofica allo scopo di rompere con una visione antropologica basata sulla rappresentazione dicotomica della realtà biologica e sociale (corpo/mente, soggettività/oggettività, istinto/ragione, concreto e particolare/astratto e generale, valori/fatti), secondo cui gli esseri umani agiscono in un vacuum relazionale e in un pre-esistente culturale/normativo, avendo come unico scopo quello di massimizzare il self-interest.
Di questi forse il più promettente alla conferenza Iaffe è l'approccio che tenta un incontro tra metodologie e pratiche femministe e analisi delle capabilities to function di Amartya Sen e Martha Nussbaum. In questa ottica il discorso economico supera i tradizionali imperativi imposti dai nostri soliti indicatori economici (l'imperativo alla crescita del Pil, alla massimizzazione del profitto, all'innalzamento della partecipazione alle forze di lavoro) per fare spazio anche in economia al concetto di «diritti fondamentali», come il diritto di partecipare politicamente o il diritto alla salute fisica e mentale. L'analisi economica in generale, e quella economica femminista in particolare, si addentra quindi in territori inesplorati dal discorso neoclassico, ponendosi la domanda di come assicurare la abilità di funzionare degli individui, di quali mezzi, tra molti, siano i più efficaci nel promuovere lo sviluppo di queste o di quelle capabilities.
Il problema nel contesto delle capabilities non è però solo la visibilità dei bisogni e dei diritti delle donne, intese come gruppo omogeneo, ma anche la visibilità delle differenze esistenti tra i vari gruppi di donne distinti per esempio da fattori quali classe sociale, nazionalità e razza, cultura e religione. Come chiaramente spiega Charusheela l'approccio delle capabilities non è immune da tentativi universalisti e di fatto ancora molto resta da fare per sviluppare in economia una prospettiva di genere in chiave postcoloniale che rifugga da tentazioni etnocentriche.

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