È solo un primo passo, ma è già una piccola vittoria per i sostenitori americani del diritto alla privacy. Un giudice federale ha autorizzato l'Eff, acronimo per Electonic frontier foundation - associazione nata a San Francisco nel luglio del 1990 che si batte per i diritti nell'era digitale - a procedere contro la compagnia telefonica statunitense At&T.
Il colosso delle telecomunicazioni è accusato dagli attivisti dell'Eff di aver collaborato con la Nsa (la National security agency), in nome della lotta al terrorismo, nell'intercettazione illegale di milioni di cittadini violando le leggi sulla sorveglianza elettronica e riducendo a carta straccia il primo e il quarto emendamento. Nel documento depositato in tribunale alla fine di gennaio si legge: «Nel dicembre scorso la stampa rivelò che il governo aveva istituito un sistema di sorveglianza che viola la Costituzione e ignora le indicazioni del Congresso. Questo programma, autorizzato dal presidente nel 2001 e utilizzato dalla Nsa senza alcuna approvazione giuridica, intercetta e analizza le comunicazione di milioni di americani. Prima di questa rivelazione i denuncianti e i membri della class action non avevano avuto la possibilità di scoprire l'esistenza di questa iniziativa o delle violazioni delle leggi a essa correlata».
Già dopo la denuncia dell'Eff era chiaro che il governo Usa puntava a insabbiare tutta la faccenda delle intercettazioni di massa scagionando completamente la compagnia di tlc e trincerandosi dietro il segreto di stato. L'operatore di telefonia da parte sua si è sempre difeso dichiarando l'impossibilità di diffondere dettagli tecnici sulla sua struttura tecnologica.
Nella causa della fondazione di San Francisco, intentata attraverso una class action, si accusa precisamente l'At&t di aver offerto l'«accesso a un numero sostanziale di comunicazioni trasmesse attraverso la loro infrastruttura telefonica, se non addirittura a tutte, incluso l'accesso diretto alle telefonate, locali e internazionali, e alle comunicazioni su Internet» e si chiede un risarcimento danni pari a 22mila dollari, poco meno di 18mila euro, per ogni singolo abbonato. Ora il giudice federale Vaughn Walker, nelle 72 pagine della sua relazione, ha riaperto la partita. All'orizzonte si profila un duro scontro in aula che potrebbe portare alla luce particolari scottanti del rapporto tra il gigante dei telefoni e il dipartimento anti-terrorismo di Washington.
Lo privacy è un tema bollente e il caso At&T non è l'unico nodo da sciogliere per le associazioni in difesa dei cittadini «connessi». Sul tavolo delle libertà digitali c'è la famigerata normativa Calea (Communications assistance for law enforcement), una disposizione governativa che obbliga i provider di Internet a dotarsi di backdoors (porte d'accesso segrete) entro maggio del 2007, lasciando così mano libera all'Fbi di effettuare intercettazioni in Rete. Si agitano allora i gruppi che lottano per i diritti civili trovando una sponda anche nelle grandi aziende di telecomunicazioni come Sun Microsystems e Pulver.com e nelle associazioni universitarie che hanno già presentato un ricorso in Corte d'appello.
A preoccupare gli Internet service provider è la crescita dei costi da sostenere per adeguarsi agli obblighi imposti da Calea. Quando la legge entrò in vigore, nel 1994, il governo stanziò 500 milioni di dollari per rimborsare le spese sostenute dalle compagnie telefoniche per l'aggiornamento delle reti. Per gli operatori della banda larga la stangata potrebbe essere esorbitante, il rischio è che a farne le spese siano gli utenti.