CAPITALE & LAVORO

Reddito garantito, un'utopia neoliberale

SACCHETTO DEVI, TOMBA MASSIMILIANO *

L'articolo di Giovanna Vertova (il manifesto, 4.6.2006), al quale hanno replicato sulle colonne di questo stesso giornale Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli (16.6.2006), ha passato in contropelo alcuni luoghi comuni delle recenti proposte sul reddito di esistenza, mettendone in evidenza debolezze teoriche e politiche. Non senza però sottolineare il problema dal quale quell'esigenza sorge: precarizzazione del lavoro e ridefinizione del welfare.
La formula del «reddito di esistenza» (basic income) appartiene al quadro delle scommesse politiche che cercano di attuare una qualche ricomposizione di un ideale soggetto precario. Da un quindicennio, con un'accentuazione tutta italica, il dibattito sulle trasformazioni del lavoro si è concentrato sulla moltiplicazione delle forme contrattuali (scambiata erroneamente per deregolamentazione, quando si tratta invece di una maxi-regolazione perfino delle forme che un tempo sarebbero state illegali) e sulla virtuosità immateriale del lavoro. I processi produttivi della nuova epoca postfordista sarebbero legati alle reti di conoscenza che si estendono sul pianeta, nelle quali ognuno interviene portando la sua dose di intelligenza... e lasciando a casa le mani. L'espansione del settore dei servizi, così ampio da comprendere le pulitrici e i bancari, rappresenterebbe uno degli indicatori principali di questa nuova tendenza.
Il «reddito di esistenza», prendendone sul serio la retorica, assume una mossa del secondo operaismo italiano, che liquidò - senza mai curarsi di fornirne alcuna analisi - la nozione marxiana di valore per far posto ad un'altra scommessa teorica: si trattava dell'operaio sociale, allora. Venne poi l'enfasi sul general intellect, e quindi sul sapere sociale generale, che ha funzionato come accattivante passe-partout per legittimare l'idea del carattere meramente residuale del lavoro operaio industriale nella fase attuale, e del passaggio ad un lavoro immateriale, intellettuale, tecnologico. Ora viene fatto un passaggio ulteriore: sarebbe il tempo di vita ad essere messo al lavoro, e quindi il consumo, in quanto attività relazionale e immateriale, ad essere produttivo di valore.
Questo approccio, appoggiato su un «paradigma a stadi», e quindi sulla successione temporale fra sussunzione formale e sussunzione reale, fra estrazione di plusvalore assoluto e estrazione di plusvalore relativo, permette di individuare - con una mossa tipica di ogni filosofia della storia - nel lavoro ad alta tecnologia e nel «postfordismo» un tendenza rispetto alla quale altre forme di lavoro sono giudicate «residuali».
Questa visione vale forse per un francobollo del pianeta terra, vale a dire per le aree più avanzate sul piano economico e tecnologico, ma taglia fuori con noncuranza i quattro quinti del pianeta, dove lavoratori salariati e coatti sono al centro di un'estorsione senza pari di plusvalore assoluto. Non si tratta, qui, di ragionare in termini «reattivi», negando la presenza di cambiamenti rispetto al passato. Ma è senz'altro sbagliato - sia teoricamente sia politicamente - definire in termini di arretratezza o «residualità» lo sfruttamento assoluto ancora in espansione nel pianeta. I 300 milioni di lavoratori coatti oggi esistenti nel mondo non sono un residuo precapitalistico se la frusta del sorvegliante è comandata dall'intensità del lavoro socialmente necessario registrata nelle borse mondiali. Sarebbe forse più opportuno interrogarsi sulla compenetrazione dei diversi livelli di sfruttamento, abbandonando un fallace paradigma a stadi storici che vorrebbe l'epoca della sussunzione formale superata da quella della sussunzione reale.
Il problema di un'economia globalizzata, nella quale viene meno anche la distinzione tra centro e periferia, è la relazione tra i diversi tipi di sfruttamento, vale a dire il modo in cui enormi masse di plusvalore assoluto prodotte nelle più svariate parti del mondo sorreggono produzioni ipertecnologiche ed espansione dei servizi qui da noi.
Da questo punto di vista va messo a tema quanto Fumagalli e Lucarelli affermano: è all'esterno del processo di lavoro e dei rapporti di produzione che viene pensata una ricomposizione del lavoro precario. Essi non mettono in questione lo sfruttamento insito nelle dinamiche capitalistiche, ma ne richiedono una sorta di «regolazione istituzionale»: col reddito d'esistenza, infatti, si lascerebbe quantomeno inalterato (anche se probabilmente peggiorerebbe) il tasso di sfruttamento di coloro che dovrebbero effettivamente pagare il reddito d'esistenza a qualcun altro. Abbandonati i laboratori della produzione per le celesti sfere della circolazione e della distribuzione, l'immagine di una vita messa radicalmente al lavoro ci presenta, oltre che uno scenario postclassista, una sorta di olismo del capitale, rispetto al quale sono tutt'al più possibili riforme e nuove forme di redistribuzione della ricchezza.
Lungi dal costituire un allargamento delle lotte all'intera società, il reddito garantito significa innanzitutto la messa in mora di ogni discussione sulle forme della messa al lavoro. Mentre si continua a discutere impropriamente di mercato del lavoro, è assordante il silenzio sul contenuto del lavoro, a parte le ipotesi paradisiache relative ai lavoratori autonomi della conoscenza di seconda generazione. Se esiste una tendenza vera nei paesi occidentali, è lo sgretolamento del welfare state accompagnato alla precarizzazione del lavoro. E se ciò può avere come presupposto la critica di un'intera generazione operaia alla logica sacrificale del compromesso welfarista e laburista, ciò non toglie che la risposta padronale e governativa a quello scontro è stata in grado di capitalizzare quegli stessi comportamenti di insubordinazione operaia. Ma allora, cavalcando la tendenza e persuadendoci di averla noi stessi impressa - dalla fuga dal lavoro alla precarietà? - rischiamo di trovarci vicino alle posizioni neoliberali sul reddito garantito, certamente compatibile con un sistema nel quale welfare e servizi vengono immessi nel mercato, al quale il singolo sarà libero di accedere per via monetaria, scegliendo liberamente cosa comprare.
* Università di Padova

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it