La prima volta che il muro sembrò tremare davvero fu una sera fredda e surreale dell'estate del '74. Mondiali di calcio, Germania Est e Germania Ovest per la prima e ultima volta di fronte, una contro l'altra. La guerra fredda su un campo di calcio. Il cancelliere Willy Brandt era appena stato costretto a dimettersi perché si era scoperto che uno dei suoi collaboratori era una spia della Stasi. Il gruppo terroristico Baader-Meinhof aveva minacciato di far saltare in aria il Volksparkstadion di Amburgo con una bomba. Il risultato della sfida era scontato, la Bild titolò senza paura «Perché oggi vinciamo noi». Era un sabato, il 22 giugno di 32 anni fa. Sugli spalti i cartelloni pubblicitari di un'altra epoca: Afri-Cola, Martini, Tic-Tac. Sul prato, quelli dell'est avevano la maglia blu, il portiere gialla; quelli dell'ovest erano in bianco tranne Sepp Maier, il numero uno, che era tutto nero e all'inizio del secondo tempo tirò fuori la divisa verde per non confondersi con l'arbitro, l'uruguagio Ramon Barreto. Fu una partita brutta, ricca di errori e povera di gol. Decisa da un contropiede che prese in contropiede il mondo. Accadde al 77' ma nessuno ricorda esattamente l'ora: secondo alcuni alle 21:02, secondo altri un minuto dopo. Il portiere Juergen Croy, rinviò il pallone con le mani al terzino Erich Hamann. Questi avanzò fin quasi a metà campo e fece partire un lungo lancio che atterrò nel cuore della difesa avversaria. Lì arrivò all'improvviso il numero 14, Jürgen Sparwasser, prendendo d'infilata Franz Beckenbauer. Era figlio di un operaio e di una casalinga, con la palla ci sapeva fare: la controllò di testa, la aggiustò col petto, mise a sedere Maier con una finta e gonfiò la rete con un tocco facile facile. Alzò le braccia al cielo, chiuse il pugno sinistro e fece una capriola, prima di essere sommerso dall'abbraccio dei compagni increduli. Lo stadio ammutolì per un secondo, poi si sentirono soltanto i clacson e le urla di quegli 8.500 tifosi venuti in treno dall'altra parte della cortina di ferro, con un visto temporaneo di poche ore e le bandiere con compasso e martello. Cinque di loro rimasero all'ovest, otto fecero perdere le loro tracce, tre morirono d'infarto. La partita finì così, 1-0. Helmut Schon, l'allenatore della Repubblica federale nato a Dresda, cadde in depressione e annunciò ai suoi di voler abbandonare la squadra. Ci ripensò. Sparwasser regalò la sua maglia a Paul Breitner, il terzino maoista e annunciò alla stampa: «Quando muoio, sulla mia bara scrivete soltanto Amburgo 1974. Tutti sapranno chi vi è sepolto». Si ritirò qualche anno dopo, avrebbe voluto fare l'insegnante ma il partito lo costrinse ad allenare. Lui allora scappò all'ovest e vi restò per sempre. Un altro contropiede.
Era il 1988 e nel giro di pochi mesi il muro venne giù davvero. Oggi ha 58 anni, i capelli color argento e il volto segnato. Allena i ragazzini e vive felice in un paesino vicino a Francoforte.
Se la ricorda quella notte, signor Sparwasser? Si racconta che faceste il bagno nella vodka e qualche compagno prese il taxi per il Reeperbahn, il quartiere a luci rosse di Amburgo...
Macché, solo qualche birra più del solito e una po' di festa coi tifosi. Avevamo giocato una gran partita e vinto il nostro girone davanti ai futuri campioni del mondo. A un certo punto arrivò una telefonata anonima dicendo che c'era una bomba nell'albergo. La polizia ci portò all'aeroporto, partimmo subito per Düsseldorf. Due di noi effettivamente erano spariti, io non avrei mai potuto. Mi avrebbero subito riconosciuto.
Sta seguendo i mondiali? Le piacciono le partite?
Certo, soprattutto Argentina e Spagna. Se la giocano loro questa coppa del mondo anche se non si può dimenticare il Brasile. Finora non mi ha convinto granché ma il torneo è lungo e contro nazionali più forti credo che i verdeoro faranno vedere quel che valgono.
C'è un giocatore qui in cui si riconosce?
Ce ne sono diversi, ma direi lo spagnolo Raul. Non è uno che aspetta davanti alla porta che qualcuno gli serva il gol. Era il mio stile: costruire il gioco con i compagni e finalizzarlo.
Trentadue anni dopo la sua impresa, domani ad Amburgo l'Italia si gioca la qualificazione contro la Repubblica Ceca.
L'Italia era una delle favorite, ma finora le è mancato qualcosa. Pure la Francia ha deluso, come nel 2002, puntando più sui singoli che sul collettivo. Mentre questo si è dimostrato un mondiale dove è il gruppo a vincere. Nonostante le sconfitte, lo hanno imparato anche le nazionali africane. Con il Ghana si vede una certa estetica del gioco, ma non sono ancora abbastanza scaltri.
L'ha vista la gomitata di De Rossi contro gli Usa?
Si gioca a calcio, non a basket. È stato un fallo grossolano, ma può capitare. Era un fallo volontario, ma non ne farei un caso.
La Germania di Klinsmann continua a vincere. Si dice che non abbia molte star, proprio come la nazionale del 1974...
In quanto a individualità, quella era meglio dotata. E anche dal punto di vista del gioco era più maliziosa. Oggi ci sono 4 grandi giocatori: Kahn, Lehman, Ballack e Klose. Gli altri sono tutti molto giovani e inesperti. La squadra del '74 invece aveva grandi personalità: Meier, Beckenbauer, Müller, Breitner.
Ci riferivamo alla Germania-est.
A noi quindi? Croy era uno dei migliori portieri degli anni '70. Bernd Bransch un libero molto simile a Beckenbauer: ad Amburgo non fece toccar palla a Gerd Müller. Poi c'erano Kreische, Hoffman e anche io. Avremmo potuto giocare tutti in altre squadre a livello internazionale.
Il famoso spirito di squadra della Ddr era allora solo un motto politico?
Con la politica il calcio non c'entra. Il calcio si gioca sul campo. Chi vuol fare politica deve andare in parlamento, non allo stadio. Sul campo ci vogliono qualità che con la politica non hanno nulla a che vedere.
L'Italia se la deve vedere con i cechi. Sono loro gli eredi della scuola calcistica dell'est?
I cechi hanno sempre giocato un buon calcio. Come anche la Polonia, l'Ungheria, un gioco molto curato. La Polonia del '74 era una squadra fortissima. Se non avesse diluviato, difficilmente la Germania ovest avrebbe vinto contro di loro. Certamente le condizioni economiche in cui si trovano i paesi dell'est si riflettono anche nel calcio. Ma le strutture fondamentali sono sempre le stesse: le vecchie scuole calcio oggi hanno solo cambiato nome. I talent-scout della Bundesliga vanno a pescare tra i giocatori quindicenni dell'est, Michael Ballack viene da lì. Ed è un peccato che nei nuovi Länder non ci sia la possibilità di mantenere viva quella tradizione. Mancano le condizioni e i soldi sui quali può contare il calcio professionistico occidentale.
Con i successi della nazionale tedesca si parla di patriottismo ritrovato.
Qui in Germania i tifosi ospiti si sentono tranquilli e felici. L'evento viene trasmesso in tutto il mondo. E in questo periodo di guerra e terrorismo è un'occasione ottima per mostrare come gente di paesi e religioni diverse possa convivere senza problemi. Chi è disturbato dal patriottismo potrebbe spegnere la tv o andare in vacanza e tornare quando il Mondiale sarà finito. Questo è uno spettacolo meraviglioso. Non c'è motivo di non essere orgogliosi della propria nazionale.
Però c'è sempre il pericolo dei neo-nazisti, o no?
Sono passati 60 anni e oggi dobbiamo poter festeggiare. La Germania di oggi è pacifica. Perché non si dovrebbe essere fieri di appartenere a questa società?