Il sole tramonta sul mare di fronte a Dili, allungando le ombre dei passanti che cercano di raggiungere in fretta le loro case. Fra poco il buio avvolgerà la città, segnando l'inizio di altre ore di fuoco e di violenze. Per tutta la notte il silenzio della capitale timorese sarà rotto dagli spari di pistole, l'aria tremerà al suono delle raffiche di mitra, i secondi saranno scanditi dai colpi di machete che cercano di sfondare le porte dei negozi o dei magazzini per rubare le poche merci rimaste.
La rivolta dei 600 militari delle guarnigioni orientali, ammutinatisi in febbraio per protesta contro le discriminazioni subite a favore dei colleghi occidentali è degenerata fino a trasformarsi in una protesta generale contro il governo del premier Mari Alkatiri. Di questo clima di anarchia hanno approfittato i criminali comuni, organizzatisi in vere e proprie gangs con nomi «newyorkesi»: Seven, Skorpions, NY, Dili Bulls... Solo l'arrivo dei 2000 soldati australiani, neozelandesi, portoghesi e malesi, è riuscito a evitare che il bagno di sangue si trasformasse in guerra civile. Il comandante delle truppe australiane, Mick Slater ha detto che «I ribelli, guidati dal maggiore Alfredo Reinhado sono decisi a risolvere il problema senza spargere altro sangue».
La maggior parte del milione di timoresi è delusa dalle promesse di sviluppo economico e sociale fatte alla vigilia dell'indipendenza e mai mantenute. I due mesi di terrore scatenati dalle milizie pro-indonesiane nel 1999 dopo il referendum indipendentista, hanno consegnato alla nuova dirigenza un territorio devastato e un tessuto sociale lacerato dagli antagonismi regionali tra i Lorosae (timoresi dell'est) e i Loromonu (timoresi dell'ovest). Il 70% dell'economia era stato distrutto, le scuole e gli ospedali saccheggiati, il 100% della rete elettrica demolito, le coltivazioni bruciate, il sistema di irrigazione abbandonato, le piantagioni di caffé e di sandalo divelte. La ricostruzione doveva cominciare da zero, ma c'era l'entusiasmo e la volontà di mostrare al mondo che la nazione più giovane poteva risollevarsi, che i 200.000 morti nei i 24 anni di occupazione non si erano sacrificati invano. E invece a 4 anni dall'insediamento del nuovo governo, le prospettive sono naufragate.
Le statistiche economiche sono impietose: il 42% della popolazione vive sotto il limite della povertà, il 52% rimane analfabeta, il 50% disoccupata. A fronte di 10 milioni di dollari di esportazioni (tutti verso l'Indonesia), ci sono 202 milioni di importazioni. Solo i 2,20 miliardi di dollari di aiuti annuali ricevuti per la ricostruzione hanno impedito la bancarotta Ma ancor più che dall'economia, la popolazione di Timor Est è delusa dalla condotta del premier, accusato di favoritismi verso una ristretta cerchia di fedelissimi e la propria famiglia. «Aspettiamo ancora i risarcimenti dei danni provocati dalle milizie indonesiane ai nostri campi» lamentano i contadini di Maliana, cittadina presso il confine con l'Indonesia, «non abbiamo ricevuto ancora nulla, mentre le famiglie imparentate con Alkatiri hanno si sono ripresi proprietà e risarcimenti».
Le lamentele si ripercuotono per tutto il paese e anche all'estero. Amnesty International e Human Rights Watch hanno criticato il sistema di polizia creato dal primo ministro, mentre la Chiesa cattolica, che a Timor Est ha avuto un ruolo fondamentale nell'indipendenza del paese, non ha mai avuto simpatia per il musulmano Alkatiri, accusato anche dall'ala dura del Fretilin di nepotismo e lassismo nel gestire la macchina economica. Da parte sua, Alkatiri non fa nulla per allentare la tensione. Non si è neppure scusato per il massacro del 26 maggio, quando dieci ribelli disarmati arresisi ai militari lealisti sono stati da questi trucidati senza motivo di fronte ad una folla sbigottita. Il fatto ha contribuito a gettare discredito sul premier e a portare molti timoresi a simpatizzare con i 600 soldati ribelli di Reinhado, il quale oltre alle dimissioni di Alkatiri chiede «il processo per tutti i crimini da lui ordinati».
Per comprendere la gravità della situazione, basti dire che i 600 militari ammutinati rappresentano il 40% delle forze armate timoresi. «Mari Alkatiri è un intrallazzatore e un opportunista. L'esatto opposto di Xanana Gusmao» mi confida Maria Barbosa, una ex guerrigliera che oggi vive a Viqueque. Davide Corona, rappresentante del Fretilin in Italia, è invece più indulgente: «Alkatiri è il politico che ha saputo abilmente negoziare materie complesse come l'accordo sul petrolio con l'Australia ed è stato eletto premier dal Fretilin stesso».
Per cercare di salvare la credibilità del governo, il carismatico presidente Gusmao ha dimesso il ministro degli interni, Rogerio Lobato, e quello della difesa, Roqe Rodrigez, avocando a sé il controllo di forze armate e polizia, dichiarando 30 giorni di stato di emergenza. Poi è sceso in piazza e, a pochi metri dal luogo dove sono stati uccisi i dieci ribelli disarmati, ha parlato a 150 militari ribelli ancora in divisa: «Sono fiero di voi perché in tempi difficili come questi, siete pronti a indossare le vostre uniformi per servire la nostra amata nazione. Perdonatevi gli uni e gli altri». Un discorso che ricorda quello pronunciato da Gusmao all'indomani dell'indipendenza, quando chiese ai timoresi di perdonare le angherie perpetrate dai miliziani pro-indonesiani e di pensare solo alla ricostruzione del paese. Oggi la situazione sta lentamente tornando alla normalità, ma finché i timoresi non cesseranno di pensare a se stessi come Lorosae e Loromonu, Timor est vivrà con la paura di avere nel suo tessuto sociale una bomba pronta a innescarsi.