POLITICA & SOCIETÀ

Droghe, le radici del proibizionismo

Fuoriluogo
ZUFFA GRAZIA,

«Chi fuma gli spinelli foraggia un'associazione che uccide». La sentenza è stata emessa qualche giorno fa da Pierluigi Vigna in un incontro con gli studenti perugini sulla legislazione antimafia. E fa riflettere, da diversi punti di vista. A caldo, mi viene da dire che questo è un esempio del classico esercizio di «biasimare la vittima» (la definizione è dell'intellettuale americano William Ryan, protagonista delle battaglie radical negli anni '70). Invece di interrogarsi su un sistema di controllo penale sulle droghe che sembra fatto apposta per foraggiare il mercato clandestino e garantirne il monopolio, si punta il dito su colui che ha sul collo il fiato del poliziotto e il diktat dello spacciatore. Detto ciò, già il fatto che non tutti sobbalzino a queste parole è la spia di quanto sia radicata la rappresentazione sociale della droga come il Grande Male, col suo corollario di Grandi Nemici (i trafficanti di morte) e di spregevoli complici (i consumatori). Da qui la retorica della guerra assoluta: alla droga, alla criminalità organizzata. E perché no: al terrorismo identificato con la «minaccia islamica», fino allo scontro finale di civiltà. Da dove proviene questo immaginario fondamentalista? Di quali culture si alimenta, a quali interessi strategici fa riferimento? Nel numero di Fuoriluogo in edicola oggi con il manifesto due studiosi britannici, Micheal Woodiwiss e Dave Bewley Taylor, cercano di dare una risposta, ripercorrendo la lunga storia dell'Asse del Male: dal traffico di droga al crimine transnazionale organizzato, fino al terrorismo internazionale. Da Richard Nixon che dichiara guerra al flagello-droga, da allora definito come «minaccia alla sicurezza della nazione americana»; a George W. Bush che muove le truppe contro gli Stati canaglia. L'analisi politica è acuta e originale. La «lotta al crimine organizzato» spunta all'orizzonte e guadagna gradatamente terreno, in parallelo all'affermazione del liberismo conservatore. In epoca rooseveltiana, l'idea non aveva corso. Piuttosto, si poneva l'accento sul potenziale di criminalità annidato nel rispettabile mondo degli affari. Come scrive il sociologo E.Ross nel 1907, «per ogni tasca svuotata dal ladruncolo di strada, il criminale del business ne ripulisce almeno mille» (profetico riferimento allo scandalo Enron). Perciò, durante il New Deal furono introdotte regole e forme di controllo sul mercato e sui capitali. Vincoli e controlli che col tempo si sono indeboliti, mentre prendeva piede una nuova rappresentazione della criminalità. Il crimine è qualcosa di estraneo al «sano» capitalismo americano, che può prosperare meglio senza lacci e lacciuoli. Il crimine è un'aberrazione esterna al sistema, estraneo alla moralità americana. Il crimine è lo straniero: è la droga del sud del mondo, è la Mafia degli Italiani, sono le bande criminali delle periferie abitate da neri e immigrati. Così, la retorica delle «multinazionali del crimine» copre i crimini delle (rispettabili) multinazionali. Va da sé che il male, proiettato fuori di sé, acquisti una dimensione internazionale, segnata dall'egemonia statunitense. Il modello americano si impone nei trattati Onu sulle droghe, sin dagli anni '60. La lotta alla droga diventa il modello e il motore della lotta globale alla criminalità, consacrata definitivamente dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato del 2002. Con ciò, Woodwiss e Bewley Taylor picconano un vecchio luogo comune, caro a molti, di destra e di sinistra, proibizionisti duri e moderati: tutti d'accordo nel ritenere sacrosanta la lotta senza quartiere al grande trafficante, per il quale le porte del carcere dovrebbero essere sigillate per sempre, o quasi. Diano uno sguardo alle carceri globalizzate d'Europa, per vedere chi sono davvero i corrieri della droga. Alzino gli occhi sui cocaleros dell'America Latina, per capire chi sono i nemici contro cui impugnano le armi.

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