POLITICA & SOCIETÀ

No alla lotta al terrorismo che sacrifica i diritti

commento
GONNELLA PATRIZIO,

La legalità è stata sacrificata alla sicurezza. Nel nome della sicurezza interna e internazionale sono stati sospesi la legalità penale e lo stato di diritto. Gli interrogatori milanesi alla presenza di funzionari della Cia, i voli segreti verso prigioni nascoste al confine dell'Europa, i sequestri lampo di presunti terroristi islamici verso Paesi dove la tortura è una pratica consueta e sistematica sono stati decisi nel nome della sicurezza nazionale e planetaria. Che ciò sia il frutto di una decisione cosciente secondo cui il diritto penale e il diritto internazionale diventano unicamente strumento di contrasto del nemico (che in questo caso è esterno ma che in altre epoche è stato, con modalità analoghe, interno) o il frutto di una inconsapevolezza diffusa e di un essere trascinati nel vortice degli eventi da gestire, o ancora il frutto di un calcolo di convenienza più o meno consapevole per acquisire facile consenso (e qui le misure ventilate e quelle realizzate hanno lo stesso valore), in ogni caso va cambiata la rotta.
Dopo l'11 settembre siamo stati ossessionati dalla retorica del «nulla è più come prima». Analisti internazionali ed esperti di terrorismo si sono affannati a sostenere che ogni mezzo era legittimo contro il nemico. Le tre possibili spiegazioni sopra menzionate si sono mescolate e confuse. I cultori dello stato di emergenza hanno comunque deciso di dare un messaggio esplicito. Nell'esplicitare i contorni del nemico di turno si produce un effetto di rassicurazione simbolica che però dimostra la intrinseca debolezza dello Stato, disposto a violare le proprie stesse regole pur di difendersi. Il rapporto di Amnesty ci rimanda una condizione tragica dei diritti umani nel mondo, in Europa e in Italia. Tragica perché le varie Guantanamo sparse in giro per il pianeta, la mortificazione dell'habeas corpus, la detenzione non comunicata addirittura prevista per legge (in Inghilterra e negli Stati Uniti) sono avvenuti in luoghi dove la democrazia formale è assicurata. L'Italia nell'era Berlusconi-Fini-Bossi-Pisanu ha assecondato tutto questo. Si è resa complice delle violazioni della legalità internazionale, è entrata in guerra, ha partecipato alle operazioni di sicurezza dell'intelligence americana, è stata quanto meno reticente nei casi di tortura in Iraq. Il decreto Pisanu del 2005 risponde alla stessa logica culturale del Patriot Act di Bush.
Dall'Unione al governo ci aspettiamo un cambiamento profondo, in primo luogo culturale. I soli messaggi politici investiti di forte valore sono quelli che hanno saputo essere, prima, messaggi culturali. Tutti gli altri sono destinati a stravolgersi nello spazio di pochi eventi ovvero a saper durare solo usando al modo dei parassiti facili emozioni di massa. Il nuovo governo si forma in una fase storica che si impone come occasione ineludibile per una riflessione aperta sull'emergenza. La codificazione universale dei diritti umani avvenuta dal 1948, anno della dichiarazione universale, al 1998, anno della firma dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale, ha subito un brusco stop nel nome della sicurezza. L'esplicitazione del nemico ha bloccato il percorso di esplicitazione dei diritti. Si tratta dunque di riprendere il verso giusto della questione. Il primo segnale che il nuovo governo può dare in questa direzione è quello di introdurre finalmente il reato di tortura nel nostro codice penale, e di ratificare quel protocollo alla convenzione ONU contro la tortura che, introducendo meccanismi operativi universali di controllo, può garantire che il diritto a non essere torturati non resti un diritto di bandiera. Il 2001 è stato anche l'anno di Genova. Il 2006 sia l'anno della proibizione esplicita della tortura.
* Presidente di Antigone

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