INTERNAZIONALE

Etiopia, bombe e repressione alla corte di Zenawi

MANFREDI EMILIO,Addis Abeba

Un anno fa, il 15 maggio era domenica. Sin dall'alba, milioni di persone si erano messe in fila in ogni angolo d'Etiopia. La gente si recava a votare per eleggere il nuovo parlamento e scegliere il nuovo governo. Bekele era uno di loro. «Ricordo bene, domenica mattina andai in chiesa e poi al mio seggio, ad Harat Kilo, proprio di fronte al palazzo del governo», racconta l'uomo, venticinque anni, fabbro. «Come tutti i miei vicini, votai per il Kinjit, la coalizione di opposizione. È passato un anno, sembra un secolo», conclude Bekele. Un anno duro per l'Etiopia. Dopo le elezioni, il clima politico è rimasto rovente. L'opposizione ha accusato di brogli il governo guidato dal primo ministro Meles Zenawi. La gente è scesa nelle strade. Le stesse strade che Zenawi aveva riempito di polizia e esercito, sin dal voto. La popolazione nelle vie ha sostenuto i leader dell'opposizione, che si dichiaravano vincitori e chiedevano all'Eprdf, il partito al governo, di farsi da parte. Un mese dopo, nella capitale il confronto è finito in tragedia. La polizia ha sparato sulla folla, in fermento ma disarmata, facendo morti e feriti. Poi il governo ha affermato di avere vinto, continuando a governare, e mettendo in atto una spirale di repressione andata avanti per mesi, sino all'arresto, agli inizi di novembre, di tutti i capi del Kinjit, una ventina di giornalisti, esponenti di Ong e della società civile. Tutti sotto processo per tentativo di sovvertire l'ordine costituzionale, insurrezione armata, tentato genocidio (nei confronti dei sostenitori di Zenawi e dell'etnia del primo ministro, i tigrè).
Dopo l'arresto, sono esplose dure proteste. Portando con sé altri morti e feriti, e arresti a migliaia. Il tutto è durato pochi giorni. Poi, il silenzio della repressione. Con la necessità di portare a casa anche quel misero salario di poche decine di euro. «Non possiamo fare nulla. Abbiamo scioperato. Dopo due giorni, il governo ha fatto circolare un avviso. Chi non si fosse presentato al lavoro il giorno successivo, sarebbe stato licenziato», racconta un'infermiera, chiedendo l'anonimato. Il silenzio, anche, di un popolo memore del pugno di ferro dei passati regimi. Un filo rosso a cui ogni governo pare attenersi.
Un anno dopo, Zenawi governa. L'amministrazione della capitale, dove l'opposizione aveva ottenuto tutti i seggi, è stata commissariata e affidata a un governo «tecnico». Nel frattempo, il sindaco eletto di Addis Abeba, Berhanu Nega, rimane rinchiuso nel carcere di Kaliti, assieme ad altre 110 persone. E il processo continua. Gli accusati si dichiarano «prigionieri politici», mentre Amnesty International afferma che «i politici, i difensori dei diritti umani e i giornalisti sotto processo sono prigionieri di coscienza che non hanno né invocato né usato la violenza», chiedendone l'immediato e incondizionato rilascio.
A complicare il quadro, da marzo Addis Abeba è scossa da una serie di attentati terroristici. Gli ultimi venerdì scorso. Nove esplosioni hanno squassato una giornata calda e caotica. Sono saltati in aria ancora autobus, bar, piccoli esercizi commerciali, un ufficio delle linee aeree etiopiche e uno dell'elettricità. Il bilancio ufficiale parla di 4 morti e di oltre trenta feriti. Testimoni oculari hanno riferito che ci sarebbero più morti.
Le esplosioni colpiscono direttamente la popolazione, nei caffè popolari, sugli autobus che tutti utilizzano. «Sono terrorizzata. Ho paura a mandare i miei figli a scuola», raccontava venerdì Bertukan, mentre gli agenti della sicurezza rimuovevano un cadavere da un pullman, a Gotera, zona sud della città. Il primo ministro, giorni fa, aveva dichiarato al manifesto: «Il materiale esplosivo arriva dall'Eritrea», additando come responsabili materiali i separatisti dell'Oromia Liberation Front (Olf) e il Kinjit. Domenica il portavoce dell'Olf, Lencho Bati, ha negato «qualsiasi coinvolgimento negli attacchi», rimbalzando le accuse sul governo.
In tutta l'Etiopia regna una calma nervosa, ed ormai è impossibile sentire un commento da parte dell'opposizione. Uno dei leader non in carcere, raggiunto telefonicamente, non ha voluto parlare. Chi parla è Zenawi. Intervistato ieri dal Times, ha dichiarato che l'opposizione, incoraggiata da segnali confusi della comunità internazionale, ha sperato di poterlo rovesciare, dando il via alla crisi politica dell'ultimo anno. «Hanno sbagliato i calcoli», ha dichiarato il primo ministro. «L'Etiopia non è l'Ucraina». Zenawi poi ha attaccato la Gran Bretagna per avergli tagliato gli aiuti senza consultarlo, e Amnesty International, definita «l'auto-proclamato angelo guardiano della democrazia in Africa, che crede che i leader africani sanguinari non porteranno democrazia se non soffiandogli sempre sul collo». Chiarendo il suo pensiero su una possibile soluzione negoziata della crisi politica dell'ultimo anno.

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