Non è escluso che Sonny Rollins gli faccia l'onore di un tête à tête: basti questo a dire che, se il suo non è uno dei quattro nomi del jazz che tutti conoscono, decisamente non è neppure dei più trascurabili. Del duo col settantacinquenne saxophone colossus si parla per l'anno prossimo, quando Stan Tracey avrà (il 30 dicembre ) compiuto ottant'anni. Ma intanto c'è chi ha già cominciato a festeggiare la lunghissima carriera del pianista inglese, che ha intrapreso l'attività professionale quando aveva da poco dismesso i pantaloni corti: il Novara Jazz Festival lo ha presentato in duo col batterista Louis Moholo, lo stesso farà tra breve Vicenza Jazz (20 maggio), che nella stessa sera lo proporrà in duo anche col sassofonista Evan Parker (si ascolti il loro recente, magnifico, Crevulation, psi records) e che prima (18 maggio) gli darà carta bianca per una serata a cui oltre agli stessi Parker e Moholo parteciperanno il sassofonista Bob Wellins, collaboratore di Tracey nel cuore dei '60, e la cantante Norma Winstone. Tracey si formò quando il nuovo jazz e l'improvvisazione radicale inglesi di cui Parker e Moholo sarebbero stati figure di riferimento erano ancora di là da venire, ma è poi entrato in sintonia con gli uomini della più ardita avanguardia d'oltremanica. Nel frattempo, dopo gli esordi alla fisarmonica nei cinquanta, fra il '60 e il '68 Tracey lavora al Ronnie Scott's, accompagnando i grandi americani di passaggio nel club londinese: giganti come Ben Webster, Dexter Gordon e appunto Rollins, col quale nel '66 contribuisce alla musica del film Alfie. Quando nel 2004 hanno inciso insieme Khumbula (Ogun), Tracey e Moholo non suonavano insieme da trent'anni . Più ancora che nell'album, Tracey a Novara ha eluso l'interpretazione in senso convenzionale di veri e propri brani, orientandosi sulla creazione di situazioni all'insegna di un espressionismo riflessivo, in cui entrano in gioco vuoi una estrema rarefazione di note, con la parola lasciata interamente alla batteria, vuoi sprazzi di un free senza eccessi, o qualche apertura melodica : situazioni ciascuna delle quali appare come una libera associazione di idee, fra l'altro di grande qualità timbrica, in cui la «continuità» è affidata più al drumming che al piano .
Moholo, sessantaseienne, ha una notevole esperienza nel non facile ruolo del batterista faccia a faccia con un pianista, formula in cui ha dato eccellente prova di sé accanto a musicisti della personalità di Irene Schweizer, Keith Tippett e persino Cecil Taylor. Strumentista energico e grintoso, è capace, come ha mostrato una volta di più con Tracey, di essere elegantemente sottile, in alcuni momenti addirittura soffice: il suo fluido drumming è imperniato su un lavoro minuto sul rullante, che poi si estende, timbricamente molto sofisticato, aereo, sui piatti, senza naturalmente escludere l'affondo.
Duo piano/percussioni anche con Matthew Shipp e Guillermo E. Brown, esponenti dell'avanguardia neroamericana di New York.
Ma di batteria sul palco neanche l'ombra: al suo posto computer, laptop e zendrum, cioè un Midi drums che ha l'apparenza di una tastiera trapezoidale con sopra dei pulsanti, che Brown porta a tracolla come una chitarra. Anche quando l'elettronica di Brown richiama la batteria, i suoni però non sono naturali, e questo loro sound artificiale determina un insolito, fresco effetto nell'accostamento con i timbri «normali», acustici, della tastiera. Con un pizzico di stuzzicante paradosso, inoltre, è il pianoforte, e non le percusioni elettroniche, a offrire spunti ritmici più facili e leggibili. Lo stile di Shipp si presenta qui non troppo interessato a un'improvvisazione aperta, correntemente jazzistica: il suo è un pianismo scandito, piuttosto asciutto, che insiste su alcune scansioni ritmiche, stacca e combina gli elementi del discorso, come avendo interiorizzato sensibilità funky, hip hop, drum'n'bass e la logica del campionamento. Al contrario l'accompagnamento ritmico-percussivo di Brown non si adagia quasi mai nella linearità-regolarità, è largamente informale, free, rumoristico. Non manca qualche caduta di tono, ma con la sua suggestiva ambiguità fra jazz avanzato e sonorità di altri ambiti musicali, e una sorta di rovesciamento dei ruoli «naturali» , il connubio Shipp e Brown, non ancora coerente e risolto, è un semilavorato di cui varrà la pena di seguire la messa a punto. Dopo due edizioni di assaggio, Novara Jazz ha operato quest'anno un salto impegnativo in termini di dimensioni (una decina di giorni di proposte), impatto sulla città (con sedi come il Teatro d'opera e il Cortile del Broletto), importanza nel panorama dei festival della stagione non balneare. Senza perdere per strada i suoi non conformisti motivi di fondo (jazz di ricerca, avanguardia neroamericana). E salvaguardando il positivo rapporto con il conservatorio che l'ha caratterizzato nelle prime edizioni, nella direzione di rompere barriere di pubblico e di pratica musicale: questa volta alcuni giovani allievi hanno interpretato partiture per archi scritte e dirette dal sassofonista neroamericano David S. Ware.
Degna chiusura oggi con il World Saxophone Quartet in un omaggio a Hendrix e domani col Monk's Casino di Alex von Schlippenbach.