VISIONI

Le morbide sovversioni dell'India

TERZIANI SABINA,TORINO

Nel caso di un lungometraggio come Sancharram, in concorso al festival gay&lesbian di Torino Da Sodoma a Hollywood, le reazioni degli spettatori in sala sono palpabili, ed è forte l'impressione che si tratti di un pubblico troppo smaliziato per una storia così semplice, troppo colonizzato da discorsi sociologico-culturali complessi per poterne cogliere l'essenza (pro)positiva, troppo abituato a narrazioni serrate e veloci per godere di tempi rarefatti.
In malayalam, la lingua parlata in Kerala e dalla giovane regista Ligy Pullappally, Sancharram significa «viaggio», il percorso che la giovane protagonista fa scegliendo di vivere, come risposta alla separazione dalla sua amata voluta dalle rispettive famiglie. Certo, Kiran è colta, creativa e agnostica come suo padre e sua madre, mentre Lilah è cattolica e ha una posizione sociale leggermente inferiore che la obbligherà a sposarsi non appena scoppia lo scandalo dell'amore con Kiran, ma nelle intenzioni della regista l'assoluta novità della storia è nel modo in cui viene tratteggiato il nascere e lo svilupparsi del legame tra le due ragazze: qualcosa di naturale e positivo. Sta qui la sovversione morbida del discorso di Sancharram a fronte di una realtà indiana - cinematografica e sociale - in cui l'esito di drammi simili è nella gran parte dei casi il suicidio, mentre gli esempi di cinema sul tema si contano sulle dita della mano, anzi su un dito: questo è infatti soltanto il secondo film realizzato in India sul tema, il primo è Fire di Deepa Mehta, uscito con grande scandalo nel 1996. Abbiamo fatto qualche domanda alla regista, partendo proprio dall'accoglienza ricevuta dal suo Sancharram in India.
Qual è stata la reazione del pubblico e delle istituzioni?
Fantastica in entrambi i casi. Per me ci sono due modi di battersi per i cambiamenti culturali. Si può prendere una posizione radicale o una posizione mainstream. Io sono un'attivista per i diritti delle donne e delle lesbiche. Sono stata avvocato a Chicago per molti anni, quindi ho familiarità con le istituzioni. Dal mio punto di vista il film doveva passare attraverso le istituzioni, non essere un «exploitation film» sulle lesbiche o sull'adolescenza. La sua prima intenzione era creare un'immagine positiva delle lesbiche indirizzata ai giovani. Prima di Sancharram c'è stato Fire; ebbene, una delle critiche che muovo a questo film è che in esso essere lesbiche è una reazione a un rapporto etero fallito. È purtroppo un'idea che hanno in molti: le donne diventano gay perché gli uomini non le soddisfano o le deludono. È ancora una fantasia maschile. Fire è stato importante per me nel 1996, rivoluzionario e molto contestato. Anche Sancharram è stato contestato da alcuni gruppi che erano più arrabbiati per il soggetto che per i contenuti reali del film. Mi facevano domande assurde come: stai cercando di far diventare gay i nostri figli? La gente non distingue tra omosessualità e promiscuità o pedofilia, e tutto ciò che è degenerato e innaturale. Invece è solo questione di libertà emotiva. In India c'è una pratica particolare che consiste nel fatto che è naturale per maschi e femmine adolescenti avere relazioni omosessuali prima del matrimonio, la gente lo sa ma fa finta di niente perché comunque faranno la cosa normale sposandosi. Diventa qualcosa di infantile da lasciarsi alle spalle.
Che ruolo hanno in tutto questo cristianesimo e induismo in Kerala?
In Kerala, nel sud dell'India, si è sviluppata una certa cultura secolare grazie alla coesistenza di queste due religioni. Nel nord è diverso, c'è un conflitto tra induisti e musulmani. In Kerala è uscito di recente un film sugli abusi che devono subire le bambine musulmane che vengono sposate a uomini molto più vecchi subito dopo la pubertà. Non c'è stata la reazione violenta che si sarebbe avuta al nord, anche perché a sud c'è quasi il 100% di alfabetizzazione, la gente parla, esprime le proprie idee politiche. E in India solo il festival del Kerala ha accettato il mio film.
Cos'è cambiato da 10 anni in qua riguardo ai diritti degli omosessuali?
Il cambiamento è lento, se pensiamo che in questi 10 anni sono usciti solo due film sulle lesbiche, però il network delle organizzazioni Glt (gay, lesbiche e transessuali, ndr) è molto fitto, grazie a internet. Infatti è grazie a questo network che ho potuto fare il film, che nasce da una e-mail che ho ricevuto nel 2000. Raccontava la storia di due ragazze, una delle quali si era suicidata annegandosi. Mi colpì il fatto che ognuno dei lettori che aveva a sua volta inoltrato il messaggio avesse scritto una variazione della domanda «cosa possiamo fare?». Ci sono così tanti suicidi di gay e di lesbiche in India che si è formato un gruppo di ascolto e di archiviazione dei casi perché si costruisca una memoria di tutta questa sofferenza.
Gli «hijras» (termine collettivo per eunuchi, gay e trans) di Bombay che vediamo nel documentario «Between the Lines - India's Third Gender» di Thomas Wartmann in concorso qui a Torino, sembrano invece accettare il destino che gli è imposto.
Ho vissuto a Bombay e ho conosciuto degli hijras. Dal punto di vista dell'accettare il proprio destino sono tipicamente hindu: cerchi di comportarti bene entro i limiti che ti sono imposti. La cosa curiosa è che molti indiani sono convinti che in India non ci siano omosessuali maschi: gli hijra per loro non sono né maschio né femmina. Ci sono da sempre, fanno parte della vita delle persone anche se stanno a margine. Non sono devianti, semplicemente non hanno un genere. Il che dà loro un potere enorme, in un certo senso. Pur non essendo fertili, si crede che possano favorire la fertilità delle coppie e tutti i neonati devono ricevere la loro benedizione. Quasi una sorta di inconscio personificato.

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