INCHIESTA

Tra vita e morte, affidati a nessuno

In Italia mancano quasi del tutto strutture per i degenti in coma prolungato
SOLDANO MONICA,

È un sabato pomeriggio il 7 dicembre, quando Gianluca, un giovane romano, passa a prendere la fidanzata dal parrucchiere per poi andare insieme a pranzo da sua madre. Salgono sullo scooter, indossano il casco, ma Gianluca offre il suo, quello integrale, alla fidanzata perché è più comodo e lascia per sé quello più piccolo senza visiera. Dopo pochi minuti, alle ore 15 una macchina, che viaggia sulla corsia opposta, sulla via Portuense, urta quasi frontalmente lo scooter. Una lunga frenata, Gianluca balza in avanti, batte la testa e chiude gli occhi. La ragazza accusa dei forti dolori alla spalla e alla testa, ma riesce ancora a parlare.
Un'automobilista ferma un'autoambulanza che casualmente passa di là. In pochi minuti li portano al pronto soccorso. L'ospedale San Camillo è vicino ed è tra i pronto soccorso il più importante d' Italia. Ma Gianluca ha avuto un arresto cardiaco. Viene rianimato e trasferito in neurochirurgia.
Tra la rianimazione e la neurochirurgia trascorrono quasi due mesi, in cui i familiari non riescono a capacitarsi della gravità e se quel sonno profondo potrà mai avere fine. Gianluca ha un trauma troncoencefalico con encefalopatia diffusa, recita la diagnosi del foglio di ricovero.
«I medici e gli infermieri ci ripetevano che non potevano fare più nulla e che quello non era il posto adatto, così mi sono attivato per capire dove Gianluca potesse essere trasferito». Racconta Francesco, il fratello maggiore Gianluca respira ancora, ma le sue funzioni cerebrali sono spente e non apre più gli occhi. I pazienti traumatici anche gravi, se sono giovani possono avere una prognosi buona solo ad alcune condizioni. Se entro l'anno non ci sono ulteriori complicazioni e se si svegliano. «Tutto questo non è frutto di un miracolo, ma di un monitoraggio continuo accompagnato da trattamenti farmacologici e da stimolazioni specifiche», secondo Maria Rachele Zjlberman, il direttore dell'unità operativa complessa del San Giovanni Battista di Roma, dove Gianluca viene trasferito. Uno dei pochi centri ad alta efficienza, che, in Italia, sono tutti privati e convenzionati. Il perché è facile intuirlo, secondo la Zjlberman.

Un ricovero improprio

«I malati che recuperano dallo stato di coma sono una realtà recentissima. Queste strutture complesse e che necessitano di personale ultraspecializzato sono il frutto della buona volontà di pochi». Ed è così che Gianluca viene preso in carico dal San Giovanni Battista. Ma la sua cartella clinica, che arriva qualche ora dopo non convince e crea dei problemi. Il ricovero viene definito improprio, vista la gravità delle condizioni. Dopo dieci giorni si verifica il primo peggioramento con una crisi respiratoria, a cui ne seguirà una seconda più importante. Non c'è scelta, Gianluca deve ritornare indietro, al San Camillo. Qui, dopo un ennesimo passaggio per la rianimazione d'urgenza, arriva nel reparto di rianimazione subintensiva, dove ora respira solo artificialmente. «Un reparto immaginato per casi non acuti», spiega il primario, Francesco Cremonese. Dove vengono portati i pazienti per lasciare liberi i posti letto della rianimazione d'urgenza. E dove alcuni di loro restano anche dei mesi. «In un caso, abbiamo avuto una degenza per un anno e mezzo, ma è necessario che poi si attivi un deflusso. Sulla carta io non potrei tenerli più di sessanta giorni».
In Italia questo è il cuore del problema. Non esiste chiarezza sui percorsi. I casi di coma persistente, che degenerano fino allo stato vegetativo, sono pochissimi in percentuale rispetto al numero di ricoveri (da 3 a 5 per 100.000 abitanti), eppure sono in crescita. Sia perchè migliorano le tecniche di rianimazione, sia perché la popolazione invecchia. Infatti, sono proprio i malati vascolari (40%), gli anziani, oltre ai traumatici (21,9%), per lo più giovani, ad ingrossarne le fila. La proporzione, poi, tra i traumatici, come ci conferma Roberto Brocato,direttore del pronto soccorso dell'ospedale San Camillo di Roma, è questa: il 50% sono ricoveri per trauma da incidenti stradali, che colpiscono per lo più i giovanissimi, il 25% da incidenti domestici, il 10% nel corso di attività sportive e l'8% sul lavoro. «La questione, sottolinea Roberto Brocato, guardando al futuro, sono proprio le degenze gravi, ma croniche. L'unica possibilità è quella di creare delle strutture autonome, flessibili con molti infermieri specializzati e pochi medici». La pensa così anche il primario della rianimazione, Francesco Cremonese.
In tutto questo oggi il problema è dato dalle situazioni intermedie, quelle dei pazienti che fanno la spola tra la medicina e la rianimazione. Mentre alcuni dei malati in stato vegetativo permanente fanno parte di quelli cronici, sia che si risveglino sia che non lo facciano. Il punto è quindi immaginare percorsi diversi a seconda dei casi specifici.

Per anni in ospedale

Tra i malati in coma profondo, quelli che non sono in grado di andare in un centro risveglio, perché non sono ancora pronti per una riabilitazione, o perché la famiglia non riesce a seguirli in un' altra città o regione, vivono di fatto anche per anni in ospedale.
Pochissime famiglie possono permettersi di portarli a casa. Il problema della domiciliazione non è solo nei costi e nell'organizzazione, ma soprattutto nelle risorse umane coinvolte 24/24h. «Il rientro a casa, continua Cremonese funziona meglio nella famiglie rurali, allargate, dove può esserci un ricambio nell'assistenza. Ricordiamoci che, a volte si parla di molti anni. Alcune famiglie sono rovinate da queste situazioni, poche si rafforzano».
Ne sa qualcosa Stefano Pellicioli, il padre di Samuel. Il ragazzo che si è risvegliato, dopo sei mesi di coma profondo. Un volto ormai noto agli italiani per la sua campagna di sensibilizzazione ed i suoi passaggi televisivi. Per aiutare Samuel a svegliarsi e a riabilitarsi, papà Stefano lotta da dieci anni con tanta forza. «Ero un dipendente Enel, mi sono dovuto licenziare per stare vicino a mio figlio. Lo rifarei. Ma occorre fare un appello perché qualcuno aiuti noi e le nostre famiglie. I costi da sostenere sono enormi, almeno 800 euro al giorno. Samuel percepisce una pensione di disabilità di 33 centesimi l'ora. Il cervello non ha ancora recuperato molte funzioni».
«I veri problemi le famiglie devono affrontarli dopo il coma», ammette il papà di Samuel. «Le statistiche ci dicono che su dieci pazienti che si risvegliano, solo due hanno problemi lievi. Gli altri restano gravemente dipendenti da persone o macchine». Ne è consapevole il sottosegretario alla Salute, Domenico Di Virgilio. Lui è un medico e la questione sembra stargli molto a cuore, tanto che ha tra le mani i risultati del lavoro di una commissione specifica sullo «stato vegetativo e su quello di minima coscienza».
«In Italia abbiamo almeno 2500 casi Therry Schiavo l'anno», annuncia il sottosegretario. «I dati emersi ci hanno fatto riflettere molto sul fatto che le richieste di assistenza di questi casi non siano più sporadici». Ed è per questo che la Commissione ministeriale ha avanzato delle proposte concrete, già trasmesse, in sede tecnica alla conferenza stato regioni. Che vedono concordi trasversalmente anche gli amministratori del centro-sinistra.
Una delle novità consiste in speciali unità di accoglienza permanente (Suap) per soggetti in stato vegetativo o in stato di minima coscienza cronica. Circa 5 posti per 100.000 abitanti. E per il 30% di loro si conta sull'assistenza domiciliare. Le Suap devono essere separate e distinte da aree di degenza ordinaria e dai reparti di riabilitazione intensiva e vi si può accedere anche dal domicilio per periodi di sollievo. Alla domanda quale sia il limite tra l'accanimento terapeutico e un atto medico dovuto, Domenico di Virgilio, in qualità di esponente del governo, risponde: «Ci atteniamo al documento del Comitato nazionale di bioetica. La nutrizione e la ventilazione non sono atti medici, quindi non possono essere sospesi. Tuttavia, no all'accanimento terapeutico, ma neanche all'abbandono terapeutico. E ancora no all'eutanasia attiva e passiva».

L'ultima parola ai medici

E il testamento biologico? «Qualora ci fosse un testamento biologico, ritengo che il medico debba avere sempre l'ultima parola». Ma nei reparti i medici sanno che ci sono momenti in cui è difficile capire quali siano i margini decisionali. «Alcune esperienze personali in venticinque anni di rianimazione, afferma Cremonese, mi hanno fatto capire che non ci sono certezze, quando devo entrare nel merito della qualità della vita di un paziente in stato vegetativo. A questo punto il mio giudizio come medico è sospeso. E la questione diventa etica, politica e forse soprattutto culturale. La paura della morte è una questione di cultura. La chiesa definisce vitale anche un corpo privo di attività cerebrale, se ha un battito cardiaco. Poi, però, ha accettato l'espianto di organi».
I pazienti in coma sono molto diversi tra loro. Esistono pazienti in coma vigile, che girano solo gli occhi e sono totalmente dipendenti per qualsiasi cosa da altre persone o da macchine. «Se un paziente diventa autonomo nella respirazione e nella nutrizione io lo mando via. Questo è il mio compito: farlo uscire dall'ospedale, renderlo autonomo», conclude Cremonese. «Invochiamo il testamento biologico», conferma Roberto Brocato con convinzione. Il Comitato etico dell'ospedale San Camillo sta cercando di trovare un metodo di lavoro con delle linee guida. Ma tutte le decisioni relative ai pazienti in stato vegetativo persistente potranno essere prese solo all'unanimità, e con il parere dei parenti. «Un testamento di fine vita già redatto, permetterebbe un maggior rispetto delle volontà del paziente», conclude Brocato.

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