MONDO

Gli highlander a stelle e strisce dell'East Africa

MANFREDI EMILIO,GODE (Etiopia)

«Welcam, bibito», scritto unendo italiano e inglese alla somala, su una costruzione di lamiera, dipinta di bianco e tenuta assieme da bastoni di legno. Così Yousuf fa pubblicità al suo bar, simile ad ogni altra costruzione nei paraggi, nel mercato del Somali Safar il quartiere della popolazione di etnia somala nella cittadina di Gode, estremo sud dell'Etiopia. Poche sedie di plastica, poggiate tra sabbia rossa e l'immondizia. All'interno della baracca, fa bella mostra di sé un frigorifero nuovo di zecca appoggiato su banchi di legno sfondati. Contiene le bibite che Yousuf commercia. Siamo in Etiopia, ma le bottiglie arrivano dalla Somalia a bordo di camion targati Mogadiscio, attraverso un confine quasi completamente aperto. «Tutti i beni in vendita in questa città, non hanno nulla a che fare con ciò che si trova in commercio nella capitale, Addis Abeba», racconta Yousuf. La sua radio cinese - plastica e luci rosse intermittenti - diffonde i versetti del Corano, facendo concorrenza al muezzin che, dalla vicina moschea, invita i fedeli alla preghiera serale. Accanto al bar, una decina di donne somale, nei loro abiti tradizionali rivendono al dettaglio l'olio proveniente dalle razioni alimentari.


Una terra di confine dimenticata


Somali Region, Ogadenia, Region 5. Sono molti in nomi per chiamare questa regione. Molti nomi per una terra di confine, senza traccia di strade asfaltate, salita alla ribalta internazionale una sola volta, alla fine degli anni '70, in occasione di una guerra di confine tra dittature, quando la Somalia di Siad Barre e l'Etiopia di Menghistu se ne contesero il possesso. Dopo quel conflitto, vinto da Addis Abeba, il ritorno nel dimenticatoio, eccezion fatta per alcuni anni, particolarmente difficili, in cui questa zona - in deficit cronico d'acqua - viene sconvolta dalla siccità. Allora muoiono prima gli animali e poi la popolazione, dipendente dalle bestie perché dedita alla pastorizia e spesso nomade. Così è andata nel 2000, quando, su una popolazione totale di circa quattro milioni di abitanti, circa duecentomila morirono in pochi mesi. Come succede oggi. In Ogadenia come in molta parte del Corno d'Africa. Etiopia, ma anche Kenya, Somalia, Gibuti e Eritrea. Undici milioni di persone a rischio, secondo quanto dichiara l'Ocha, l'agenzia dell'Onu incaricata di gestire le emergenze umanitarie. Due milioni solo qui in Etiopia. Ecco, per una nefasta casualità, si riaccendono i riflettori su questa zona cuscinetto, stretta tra l'altopiano etiope, che ufficialmente la controlla, e la Somalia di Mogadiscio, da più di tredici anni senza governo, a cui la popolazione locale si sente legata, per omogeneità etnica e commerci.
Per chi arriva da queste parti, la complessità del quadro appare subito evidente. Si atterra in un aeroporto militare, che pare sottoposto a controlli accurati. Ma l'artiglieria è fuori uso, e i soldati parlano una lingua diversa dalla popolazione civile, che non li ama. «Sono highlanders, gente dell'altopiano, non somali», dice Ahmed, commerciante di alimentari. «Stanno nei loro campi militari, non hanno contatti con la popolazione locale e non escono mai dalla città. Fuori, il territorio è controllato dall'Onlf», il Fronte nazionale di liberazione dell'Ogaden. «Il Fronte controlla tutto ciò che sta fuori da Gode, eccezion fatta per alcuni punti di confine», spiega un funzionario locale che chiede l'anonimato. «I ribelli sono somali, come la popolazione locale. Molti giovani entrano nelle loro fila», continua. Ma non bisogna aspettarsi un esercito vero. Sono gruppi di persone, dopo anni con vestiti civili ora hanno delle uniformi. Girano armati di vecchia artiglieria leggera. Si spostano a piedi o a dorso di mulo. Niente technicals, i pick-up scoperti con sopra un cannoncino, onnipresenti nella Somalia già italiana. Alcuni dicono che l'Onlf sia legato a Ittihad al-Islam, il gruppo fondamentalista islamico somalo vicino ad al Qaeda. «Ma noi in Ogadenia li sosteniamo perché vogliono l'indipendenza della nostra terra da Addis Abeba, che ci impedisce di sviluppare le nostre infrastrutture. Non esiste una strada asfaltata, i telefoni, anche in città, non funzionano quasi mai. C'è un medico ogni cinquantamila abitanti», dice Mahmud, camionista, in sosta per il pranzo nel villaggio di Addawi, tra Gode e Denan.
Girando per le strade di Gode, così come a Jijiga, l'altra città della Somali Region, è usuale imbattersi in fuoristrada bianchi, targa di Gibuti e scritta U.S. fatta con lo scotch. A bordo, civili, per la maggior parte bianchi, in pantaloncini e canottiera. E artiglieria pesante. Sono soldati americani, nella zona da più di un anno. Fanno parte della Combined joint task force per il Corno d'Africa, il cui comando si trova a Camp Lemonier, una ex base della legione straniera francese, a Gibuti. Secondo il Comando, la missione nell'area supporta l'operazione Enduring freedom e «ha il fine di garantire alle nazioni ospitanti un ambiente stabile e sicuro, dove la gente abbia la libertà di scegliere. Dove l'educazione e la prosperità siano alla portata di ognuno e dove i terroristi, che con le loro idee estremiste cercano di ridurre in schiavitù le nazioni, non possano calpestare il diritto di autodeterminazione». Antiterrorismo dal volto umano?


Il disagio delle Ong


Gli americani si muovono nelle istallazioni militari etiopi senza controlli. Con la popolazione locale, da subito, hanno avuto problemi. Mischiare attività umanitarie (vaccinazioni, riparazione di ponti, costruzione di pompe idrauliche) e una presenza militare strutturata, non ha conquistato il cuore di una popolazione non acculturata ma abituata a riconoscere il lavoro degli operatori umanitari, le loro macchine, i loro abiti. «La gente, nelle campagne, ha iniziato a diffidare anche di noi da quando sono arrivati gli americani, pesantemente armati, a dire di fare intervento umanitario», dichiara un dipendente di una Ong, che chiede l'anonimato. I soldati con la stampa non parlano. Solo poche parole, in privato. «Come mai le Ong che lavorano in questa area dicono di non voler collaborare con noi?», si chiedeva perplesso un militare americano. «Un giorno riparano un pozzo girando armati, un altro partono su una pista che va verso il confine per un'operazione antiterrorismo. Lavorare sul territorio, per chi si occupa solo di aiuti umanitari, è diventato ogni giorno più difficile», spiega di rimando l'operatore.
Pare che le truppe statunitensi abbiano raggiunto un accordo con l'Onlf, a differenza dell'esercito etiope che, se esce dai suoi fortini, viene attaccato.
La sera, deposta l'artiglieria, gli americani si possono incontrare nell'Amhara Safar, il quartiere abitato da gente d'altopiano, arrivata qui negli anni per fare affari e rimasta a goderne i frutti. In questo quartiere ci sono bar e, soprattutto all'Amhara Hotel, birra e ragazze disponibili con cui passare la notte. «Nel quartiere somalo non entrano. Non per particolari rischi. Ma la nostra cultura non gli interessa. Non beviamo birra, e non si trovano prostitute. Dunque, non hanno nulla da cercare», afferma Abdi, commerciante.
Sullo sfondo, a riaccendere le luci su questa terra, la siccità. «Qui non piove da ottobre», spiega Abdullahi Ali Hadji, responsabile sanitario del distretto di Gode. «Le piogge diminuiscono ogni anno. Una progressione allarmante. Senza precipitazioni, non c'è erba da brucare per gli animali, che si ammalano e muoiono, lasciando la nostra gente senza cibo, latte, denaro. La popolazione ora si sta raccogliendo nei centri abitati. Si creeranno campi per sfollati, con condizioni igieniche tremende. Scoppieranno rapidamente epidemie», aggiunge il dirigente.
Il problema è la prevenzione a medio e lungo termine. «La strategia per evitare l'emergenza ad ogni siccità starebbe nello sviluppo di attività sostenibili nella regione. Sfruttare le rive dei fiumi, come lo Shebele, modificando le attività della popolazione, da pastorali ad agropastorali. Avvicinando la vita della popolazione ai fiumi, insegnando loro a irrigare, ad conservare foraggio per i periodi di siccità. Ma quando parlo di prevenzione, nessuno ascolta. Si ricordano di noi solo quando si inizia a morire di fame e di sete».

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