LETTERE

Lo stereotipo dell'emigrante

ELEZIONI
PUGLIESE ENRICO,

Il voto degli italiani all'estero ha rappresentato una piacevole sorpresa. Molti avevano dato per scontato che quel voto sarebbe andato pressoché largamente alla destra mentre invece è avvenuto esattamente l'opposto. Un titolo di pagina del manifesto di mercoledì 12 sottolinea questa contraddizione e l'articolo di Sandro Portelli ribadisce che quel voto è stata una lezione per tutti. L'articolo non esclude l'interpretazione prevalente in base alla quale le figuracce di Berlusconi hanno fatto vergognare gli italiani all'estero, compresi quelli di destra, determinando così uno spostamento di voti o una astensione nell'elettorato nazionalistico e conservatore.
Io sono convinto che ci sia qualcosa di vero in questa interpretazione con due sostanziali riserve: in primo luogo non possiamo fare confronti con esperienze precedenti e quindi non possiamo in alcun modo verificarla; in secondo luogo essa va integrata con altre interpretazioni possibili meno contingenti che possono fare sperare anche in una prospettiva di consolidamento di quel voto. E già l'articolo di Portelli introduce qualche elemento di rilievo relativo alla realtà sociale e culturale della presenza italiana all'estero. Portelli scrive che «lo stereotipo dell'immigrante italiano arcaico non basta più a definire la realtà di una cittadinanza internazionale istruita e politicamente partecipe, che misura il proprio essere italiani sullo sguardo del resto del mondo».
Sono perfettamente d'accordo con questa affermazione. Ma vorrei andare più avanti proprio con riferimento allo stereotipo dell'emigrante italiano arcaico. Da quando è cominciato il dibattito sul voto per corrispondenza degli italiani residenti all'estero, ho notato l'esistenza di uno stereotipo negativo assolutamente infondato, frutto al contempo di carente informazione e di immaginazione distorta. Ne veniva data per scontata una condizione sociale e culturale - di piccolo borghese ignorante e conservatore - che avrebbe necessariamente avuto come esito politico un voto a destra. Si riteneva inoltre che il rapporto con l'Italia fosse ormai perso, tranne che per qualche riferimento retorico all'italianità. Invece, come tenterò di illustrare, chi conosce la condizione degli italiani all'estero sa che le cose non sono affatto così: in buona parte - anzi in massima parte - si tratta di una realtà di lavoratori, di proletari, giustappunto di emigranti. Anche la spiegazione del voto va fatta tenendo conto di ciò.
Va ricordato che l'Italia - che è notoriamente ormai un paese di immigrazione, data la consolidata presenza di larghe collettività di stranieri - continua a essere anche di emigrazione, non solo per il flusso in uscita di lavoratori italiani - al quale peraltro corrisponde ogni anno un flusso di italiani che ritornano di dimensioni non molto diverse - ma soprattutto per la presenza di vecchi e nuovi emigranti e loro figli che conservano la cittadinanza italiana e sono legati alla loro terra di origine.E qui c'è una prima specificazione da fare. Infatti non sempre è chiaro nella letteratura e nel discorso politico su «gli italiani all'estero» se ci si riferisce a cittadini italiani o a persone che si riconoscono come italiani (o anche come italiani) a prescindere dalla loro cittadinanza. Tra l'altro l'espressione «Italiani nel Mondo», che esiste da prima che l'on. Tremaglia si investisse della loro rappresentanza, sembra essere stato inventato proprio per aggravare questa confusione: insomma per mettere sullo stesso piano il proletario cittadino italiano emigrato in Germania e l'italo americano, cittadino Usa, esponente del partito repubblicano, nonché un po' fascio, che non è neanche il tipo prevalente in America.
Nei diversi paesi di arrivo - nei diversi stati in cui esistono comunità di italiani - il peso relativo delle due categorie è assolutamente diverso. Così, ad esempio, in Canada o negli Stati uniti l'incidenza del primo gruppo (cittadini italiani) sul totale della collettività italiana è piuttosto modesta, mentre essa è molto elevata in paesi quali appunto la Germania ma ad esempio anche il Belgio. I dati più recenti relativi ai cittadini italiani all'estero - nonostante notevoli imprecisioni che ancora esistono - mostrano come il loro numero sia fortemente concentrato nei paesi europei e in Germania in primis. La cosa è ovviamente comprensibile tenendo conto del carattere più recente di questa seconda esperienza e del modello di incorporazione degli immigrati (cioè del carattere delle politiche di immigrazione nel quadro dello sviluppo economico del paese). Non si tratta quindi di un dato meramente burocratico o statistico: è ragionevole ritenere che coloro i quali tuttora conservano la cittadinanza italiana siano in prevalenza persone con alle spalle una esperienza più recente (se non recentissima, da quando è ripresa l'emigrazione dal Mezzogiorno). Tra questi cittadini, inoltre, i nati all'estero - che pure ci sono - sono indubbiamente una minoranza. La maggior parte di essi sono stati emigranti: sono appunto degli emigrati. E la loro presenza pone all'ordine del giorno la necessità di politiche sociali per gli emigrati anche nei paesi dell'Unione Europea. Se si è votato a sinistra è perché l'Inca-Ggil da decenni lavora su queste tematiche e aggrega i cittadini emigrati. E questa organizzazione, insieme ad altre (Colonie libere, Acli, etc.) che bisogna ringraziare se le cose sono andate bene. Tra l'altro non è un caso che da questi ambienti provengano diversi tra gli eletti. E qui c'è da fare una ulteriore specificazione per quel che riguarda il voto degli italiani all'estero: bisogna innanzitutto chiarire che già quest'espressione («voto degli Italiani all'estero»), che è usata solitamente sulla stampa e nel dibattito in materia, è scorretta. Non si tratta infatti di un nuovo diritto di voto attribuito a cittadini che prima ne erano formalmente esclusi, bensì semplicemente di una modifica relativa al modo in cui questo diritto si esercita. In altri termini quegli stessi italiani che precedentemente per votare dovevano venire in Italia ora possono votare anche all'estero se iscritti presso gli appositi registri (la cui revisione e integrazione sta permettendo anche di conoscere meglio l'entità della presenza degli italiani all'estero).
Si tratta di una storia più antica e di una realtà ormai consolidata che riguarda alcuni milioni di cittadini i quali possono già votare nel loro paese di residenza senza più venire in Italia come è già avvenuto in occasione del referendum relativo all'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Dal punto di vista istituzionale la legge, promulgata nell'ottobre del 2000, ottenne il primo sì della Camera dei Deputati nel febbraio del 1999. Va ricordato che questa legge implicava una modifica costituzionale (art. 48) giacché, oltre a concedere l'elettorato attivo e passivo dei residenti all'estero, istituiva anche una nuova circoscrizione («circoscrizione estero») per la raccolta dei voti degli italiani residenti in paesi stranieri. Detto per inciso, proprio sul tema della circoscrizione si sono appuntate le principali critiche. Ma ormai su questo credo che ci sia poco da fare. L'esperienza del voto all'estero degli italiani era cominciata in maniera piuttosto ingloriosa.Nel caso del referendum l'affluenza alle urne degli aventi diritto è stata tra gli italiani all'estero prossima a quella registrata in Italia, cioè intorno al 25%.
E in Germania - il paese con la massima presenza di cittadini italiani - la percentuale era stata ancora più bassa (circa la metà). Inoltre molti lamentarono una carente diffusione delle schede elettorali. Ora le cose sono andate bene. Bene nei risultati e - con buona pace di Berlusconi - bene anche nello svolgimento delle operazioni elettorali.

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