Charles Taylor sta per tornare a casa sua, in Liberia. Ma non da trionfatore, come aveva promesso quando, nel 2003, accordi di pace raggiunti con la mediazione della Nigeria avevano messo fine alla guerra civile nel Paese. All'aeroporto, partendo per un esilio dorato nello stato nigeriano di Calabar, l'exsignore della guerra, predicatore nonché presidente della Liberia sino a quel giorno, aveva dichiarato: «Con l'aiuto di dio, ritornerò». Ma, anche grazie alla presenza dei peacekeepers dell'Onu, le cose nel primo stato indipendente africano, non sono andate come Taylor aveva previsto. Dopo due anni e mezzo di transizione supervisionati dall'Onu, i liberiani sono andati alle urne nell'ottobre scorso, eleggendo l'anziana e discussa economista Ellen Sirleaf- Johnson, vincitrice al ballottaggio contro l'ex calciatore George Weah. La Johnson, primo presidente donna d'Africa, ha promesso di rinnovare la politica liberiana, liberandola dai fantasmi della lunga guerra civile. Primo scheletro nell'armadio di cui liberarsi, il destino di Charles Taylor, ricercato in Sierra Leone per crimini di guerra legati al suo appoggio ai ribelli del Ruf - noti per la loro mania di amputare gli arti - che ne ricambiavano il supporto in armi con partite di diamanti. Ma decidere che fare con Taylor, a Monrovia, non è stato facile, visto l'appoggio considerevole di cui l'uomo ancora gode. La Johnson ha esitato per mesi. Poi, pressata dalla comunità internazionale, agli inizi di marzo ha chiesto alla Nigeria di consegnare Taylor alle autorità sierraleonesi. Ma la Nigeria aveva sempre sostenuto di poter riconsegnare Taylor solo alle autorità liberiane. Si è creato un cortocircuito diplomatico, sino a quando, sabato scorso, dopo lunghe esitazioni, la Nigeria ha dichiarato di stare per consegnare il dittatore alle autorità liberiane. Da quel momento, si sono rincorse voci. Che Taylor fosse in Liberia, o in Etiopia. Che volesse chiedere asilo politico in Venezuela o in Siria. Di certo, c'era solo l'incontro di oggi, a Washington tra Obasanjo e Bush. E che, in questo contesto, Taylor abbia abbandonato la sua abitazione a Calabar, riapparendo, dopo ore, nella zona nord del confine tra Nigeria e Camerun, nello Stato di Borno, al posto di frontiera di Gamboru-Ngala. Fermato a bordo di un'auto diplomatica, è stato arrestato. Tradotto sotto scorta militare nella capitale regionale Maiduguri, è stato caricato su un jet presidenziale nigeriano che lo riporterà a Monrovia, dove verrà preso in consegna dai caschi blu. Di certo, ancora, c'è la presenza ad Addis Abeba, da ieri, del consigliere spirituale di Taylor, Kilari Anand Paul. Predicatore evangelico indiano e fondatore della associazione dal modesto nome di Iniziativa per la pace globale (Gpi), Paul ha accettato di parlare con il manifesto. «Voglio sia chiaro che Taylor ha lasciato Calabar con l'aiuto dei servizi di sicurezza nigeriani, che lo scortavano, col supporto del presidente Obasanjo», racconta concitato. Paul cammina nella sua stanza dello Sheraton di Addis Abeba, l'albergo più lussuoso d'Africa, e ricostruisce gli avvenimenti che hanno portato all'arresto di oggi: «Condoleeza Rice e Olosegun Obasanjo si sono accordati per fare questo colpo spettacolare. La Rice infatti, dopo anni di continui fallimenti, dall'Iraq al Congo, al Sudan, aveva necessità di dimostrare la propria abilità - insiste Paul -. Eccolo il suo successo, l'arresto di oggi. La Rice ha comprato Obasanjo, offrendogli 30 miliardi di dollari e l'appoggio americano alla sua terza candidatura presidenziale. Ora Charles andrà in Liberia, e poi verrà trasferito in Sierra Leone. Ma tutto questo destabilizza i due paesi». Poi aggiunge, con tono messianico: «Ho appena parlato con il presidente Johnson nel tentativo di evitare disordini a Monrovia. Ora sto per volare negli Stati Uniti, dove incontrerò i miei amici al Congresso. La Rice subirà serie conseguenze per ciò che ha fatto», tuona Paul. «Penso sia una scelta più opportuna che Taylor venga processato all'Aja - conclude - ma che, nell'attesa, sia ospitato in un paese neutrale. Quale non posso dirlo, sono in trattativa. Certo, l'Etiopia sarebbe una ottima soluzione, ma c'è anche un altro paese disponibile», Intanto, a Monrovia, c'è molta preoccupazione per ciò che succederà dopo l'atterraggio all'aeroporto Roberts. Molti, soprattutto tra i giovani ex-combattenti, si sentono ancora legati a Taylor, e la pace degli ultimi mesi potrebbe rivelare le sue fragili basi.