VISIONI

A Bergamo sulle strade del jazz

LORRAI MARCELLO,BERGAMO

«In una città americana di queste dimensioni per il jazz non si troverebbero spettatori abbastanza da riempire un teatro della capienza del Donizetti. E al sindaco non verrebbe mai in mente di farsi vedere ad un festival di jazz: ma per il jazz un sindaco negli Stati uniti non si muoverebbe da nessuna parte, neanche a New York». Nei giorni di Bergamo Jazz queste osservazioni Uri Caine le ha ripetute spesso, insistendo su quanto oggi, «in un momento in cui la situazione degli Stati uniti è così difficile», l'Europa sia importante per il jazz d'oltre Atlantico: e pur sempre insoddisfatti per la situazione del jazz dalle nostre parti, qualche volta è utile guardarla anche dalla prospettiva dell'altra sponda dell'Oceano. Direttore artistico dell'edizione 2003 della Biennale Musica di Venezia, il pianista e compositore americano è stato chiamato a curare il cartellone di Bergamo Jazz 2006, e l'incarico gli è stato ufficialmente confermato anche per le edizioni 2007 e 2008: una scelta chiara e innovativa nel panorama dei festival del jazz italiani (come limpida è la scelta di Caine di non proporsi nella rassegna come musicista), indirizzata al potenziamento di una manifestazione che con la sua tradizione meritava di non scadere nella routine. Qualche indicazione in questo senso è già venuta dal programma allestito da Caine: come il solo di chitarra, elettronica e aggeggi di Fred Frith che alla Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea nel tardo pomeriggio di venerdì ha preceduto l'avvio dei concerti al Donizetti. Un'apertura in tutti i sensi, significativa sia per il personaggio a cui è stata affidata che per la sede, dall'anno prossimo destinata ad ospitare una performance ognuno dei tre giorni del festival (mentre d'altro canto si pensa ad un collegamento con il Bergamo Film Meeting). Un festival non è una biennale musica, e in questo primo approccio Caine ha opportunamente ritenuto di tenere presente l'identità della rassegna di Bergamo confezionando un cartellone decisamente equilibrato. Anche negli anni in cui guardava più audacemente in avanti il festival non dimenticava gli aspetti più classici del jazz, qui ricordati dalla romana Parco della Musica Jazz Orchestra, che ha offerto una pregevole interpretazione di musiche concepite e arrangiate per grande organico da Martial Solal: spronata dalla presenza al pianoforte del settantanovenne pianista francese, uno dei grandi vecchi del jazz non solo europeo, la compagine, diretta da Maurizio Giammarco, ha mostrato un'apprezzabile coesione, una bella puntualità esecutiva, e un non banale lavoro sui timbri. E anche il panamense Danilo Perez (membro del gruppo di Wayne Shorter), con il suo trio ha proposto un pianismo, asciutto e piuttosto riflessivo, ancorato ad una dimensione ortodossa del jazz. Il punto più alto rispetto all'interesse per il jazz contemporaneo il festival lo ha toccato con 7 Black Butterflies del contrabbassista Drew Gress, il tipo di formazione che raramente trova spazio nelle rassegne di casa nostra: con Tim Berne al sax alto, Ralph Alessi alla tromba, Simon Nabatov al pianoforte e Tom Rainey alla batteria, il gruppo, newyorkese e di area bianca, si dedica ad una musica largamente scritta, pacata, accurata, ma che, animata da una tensione espressiva e dal solismo di forti personalità, non rischia mai l'estetismo e la calligrafia. Godibile anche la messa a punto del gioco di fiati che si incrociano, si inseguono, ricamano, fanno contrappunto, del gruppo del sassofonista Steve Coleman, uno degli alfieri del jazz nero della Grande Mela, che con Jen Shyu, voce, Jonathan Finlayson, tromba, Tim Albright, trombone, e Tyshawn Sorey, batteria, ha proposto una musica significativamente lontana dagli schemi ritmici e dalle suggestioni funk che gli sono cari e all'insegna di una lievità che non gli è abituale. Operazione onorevole, John Scofield «plays the music of Ray Charles» è stato soprattutto l'occasione per un assaggio del talento del vocalist nero Dean Bowman, qui un po' stretto dalle esigenze del copione e abituato a situazioni più avventurose (per esempio accanto al chitarrista jazz-rock David Fiuczynski o al chitarrista avantgarde Elliot Sharp): nel richiamare «The Genius » Bowman avrebbe meritato un ruolo meno puramente evocativo, a vantaggio magari di una maggiore concisione della chitarra, peraltro sempre pertinente, di Scofield. Se Gress e i suoi hanno soddisfatto la sensibilità contemporanea dei palati più esigenti, non si può affatto dire che la loro prestazione sia spiaciuta a quella parte del pubblico che sabato sera era al Donizetti specialmente per Stefano Bollani, e in questo senso l'accostamento ha costituito un test molto interessante. Nella conferenza stampa di presentazione del suo nuovo album I visionari (Label Bleu), inciso con il quintetto presentato a Bergamo, Bollani ha lamentato che se nel corso di un concerto racconta una barzelletta la maggior parte dei critici parla di quella e non della sua musica. Che però al Donizetti, con Mirko Guerrini a Nico Gori alle ance, Ferruccio Spinetti al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria, è apparsa non solo inconsistente compositivamente, con una girandola di spunti che si avvicendano in un varietà senza particolare senso e senza nessun approfondimento all'interno di ciascun brano, fra ninorotismi e ovvietà, ma anche sfilacciata e interpretata in maniera piuttosto trasandata: di qualcosa di visionario di certo neanche l'ombra.

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