MONDO

Il processo-farsa di Zenawi

ETIOPIA
MANFREDI EMILIO,ADDIS ABEBA

Un vecchio camion verde, poche feritorie per un soffio di aria e un raggio di luce, imbocca la rotonda di Sidist Kilo, vicino all'università di Addis Abeba. Trasporta parte dei 131 etiopi - politici, giornalisti, esponenti dell'Ong Action Aid e dell'Associazione degli insegnanti etiopi - arrestati nel novembre scorso e accusati di alto tradimento, tentativo di sovvertire con le armi l'ordine costituzionale, genocidio. Imputazioni che, se confermate, prevedono pene sino alla condanna a morte. I passeggeri di questo carro-bestiame sono comparsi giovedì, per propria scelta senza avvocati difensori, davanti all'Alta corte federale. L'aula dell'udienza è un edificio circolare a un piano. In uno sguardo stanno gli ultimi tre decenni di storia d'Etiopia. Al centro del soffitto campeggia un grosso bronzo: la falce, il martello, la stella e l'Etiopia, e una scritta in amarico («potere al popolo»). Sopravvissuta alla caduta del Derg (il regime socialista di Menghistu Haile Mariam), l'aula è sede dei principali processi con implicazioni politiche, a membri del passato regime o agli oppositori di oggi.

Il presidente della corte, Adil Ahmed, ha chiesto agli imputati se avessero obiezioni riguardo le accuse e di dichiararsi colpevoli o innocenti. La maggior parte di loro, vestiti di nero, a lutto, si sono rifiutati di rispondere. Molti tappandosi la bocca con le mani. A parlare solo i leader del Kinjit, il principale partito d'opposizione. Anzitutto Hailu Shawel, presidente del partito. «Le accuse rivolteci non rispecchiano la realtà. Usano documenti falsi, firme contraffatte», ha dichiarato l'anziano leader, ormai cieco da un occhio a causa della mancanza di cure mediche durante la prigionia. «Le nostre condizioni di detenzione sono peggiorate. Ci tengono in uno stanzone sovraffollato, con più di trecento persone. Dal carcere all'aula siamo stati tradotti in catene», ha aggiunto Berhanu Nega, esponente di spicco del Kinjit e sindaco eletto della capitale. «Trattiamo questi detenuti come tutti gli altri, secondo l'abituale organizzazione e logistica», ha replicato un rappresentante del carcere di Kaliti, periferia di Addis Abeba, dove sono reclusi.

A fine udienza, il giudice Ahmed ha ricordato che, a norma della legge etiope, il silenzio è una dichiarazione di non colpevolezza, e l'assenza degli avvocati equivale al desiderio di autodifendersi. «Non è così. Noi non abbiamo alcuna intenzione di difenderci, poiché il processo è già concluso. Il primo ministro Zenawi ha già fatto sapere qual è la pena a cui andiamo incontro. La condanna a morte», ha dichiarato Birtukan Mikdesa, vice-presidente dell'opposizione, ex-giudice ed avvocato, prima che le togliessero la parola. Nessuno sviluppo, udienza aggiornata a settimana prossima.

Una lontana eco sembrano le parole fiduciose pronunciate la settimana scorsa dal Commissario europeo allo sviluppo, Louis Michel. Dopo aver incontrato Zenawi e alcuni oppositori in carcere, l'ex ministro degli esteri belga aveva dichiarato: «Sono venuto per rilanciare la dialettica politica. Ho parlato al primo ministro del tipo di imputazioni, e ho fiducia che le cose miglioreranno. Zenawi mi ha assicurato di aver riaperto il dialogo con l'opposizione parlamentare». Molto diverse le parole di Amnesty International. Mercoledì, attraverso un comunicato stampa, Kolawole Olaniyan, direttore della sezione Africa, ha sostenuto che «tutti i detenuti sono prigionieri di coscienza, imprigionati esclusivamente sulla base delle proprie opinioni e attività non violente. Ne chiediamo l'immediata e incondizionata liberazione, e che il governo smetta di criminalizzare la libertà di espressione».



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