Ancora sangue per le strade della capitale etiope, Addis Abeba. Dopo le proteste, le uccisioni e gli arresti avvenuti a giugno e a novembre, conseguenza delle contestate elezioni del maggio scorso, la tensione nello stato del Corno d'Africa resta alta. Giovedì e venerdì della scorsa settimana si sono svolte le celebrazioni legate al Timket, l'Epifania cristiano-ortodossa, che si è trasformata in un ennesimo faccia a faccia tra la polizia federale e la popolazione, che, come ogni anno, si è radunata numerosa in diverse zone della città per partecipare ai riti ed accompagnare le icone dei santi, marciando e cantando in processione. «Andate via e lasciateci pregare in pace», ha iniziato a gridare la gente, protestando per la forte presenza di reparti antisommossa nei pressi dei luoghi delle cerimonie. Slogan di protesta sono stati scanditi sia contro il governo del primo ministro Meles Zenawi, sia contro il patriarca della Chiesa ortodossa etiope, Aba Paulos, accusato da più parti di essere totalmente allineato alle posizioni del governo, e di non stare intervenendo per fermare l'attacco di Zenawi contro ogni forma di opposizione politica, sociale o culturale. Ai canti di protesta sono seguiti lanci di pietre contro gli agenti che, attenendosi ad abitudini ormai consuete, hanno aperto il fuoco sulla folla.
«Io non temo la polizia, ho timore soltanto di Dio», ha dichiarato Bereket, cercando riparo dai colpi di kalashnikov. «Se la polizia non si fosse intromessa nelle processioni religiose, provocando le persone con la sua stessa presenza, le cose non sarebbero degenerate», ha aggiunto. Difficile restituire cifre credibili su ciò che è accaduto. Molti testimoni sostengono che, a seguito dei colpi sparati contro i credenti inermi in diverse zone della città, ci sarebbero stati diversi morti. Le fonti ufficiali parlano di due decessi, mentre sono almeno 40 i feriti giunti ai diversi ospedali della città.
Gli spari sulla folla sono avvenuti solo 24 ore dopo l'arrivo nella capitale Addis Abeba del vice-segretario di stato americano per l'Africa, Jendayi Frazer - in città per mediare sul problema frontaliero etio-eritreo - e pochi giorni dopo la visita di Hilary Benn, il ministro britannico per lo Sviluppo, che aveva annunciato la decisione di Londra di tagliare tutti gli aiuti al bilancio nei confronti del governo etiope.
Per nulla impressionato dalle prese di posizione britanniche, Zenawi prosegue per la propria strada. E lancia un nuovo segnale alla stampa. Nella mattinata di sabato, il corrispondente dell'Associated press in Etiopia, il cittadino britannico (solo un caso?) Anthony Mitchell, è stato espulso dal paese per «aver infangato ripetutamente l'immagine della Nazione, non rispettando l'etica giornalistica, e diffondendo informazioni lontane dalla verità riguardo all'Etiopia». Il Comitato per la protezione dei giornalisti (Cpj), ha definito l'espulsione «un serio attacco alla stampa straniera presente in Etiopia».
In tutte le principali città la tensione resta alta. Gli studenti stanno boicottando le lezioni nelle scuole superiori, e spesso si scontrano con i reparti di polizia che tentano di fare rimanere gli alunni nelle classi. Ogni giorno continuano numerosi gli arresti, soprattutto ad Addis Abeba e nelle regioni Amhara e Oromia. Dal carcere, i leader dell'opposizione, detenuti dal 2 novembre scorso, hanno fatto sapere che non compariranno più davanti ai giudici dell'Alta corte federale che li sta processando. In un documento collettivo, affermano che il processo a proprio carico è motivato da una decisione politica, e che esso si svolge secondo i voleri del premier.
Otto mesi dopo il giorno delle elezioni, la bella immagine di democrazia della gente d'Etiopia in fila per votare pare sempre più una vecchia polaroid, sbiadita e dimenticata.