IL CAPITALE

Ricerca e conoscenza, ecco le Attività produttive

RIVE GAUCHE
FERRARI SERGIO, ROMANO ROBERTO,ITALIA

Recentemente Riccardo Realfonzo ha avanzato una proposta di politica economico-finanziaria pubblica di buon senso. Si tratta di tenere fermo il debito al livello ereditato dal precedente governo ed investire tutte le risorse disponibili per il rilancio del sistema. Il governo potrebbe prendere come riferimento temporale la legislatura, e quindi fissare l'obiettivo di tenere stabile il debito. In questo modo si libererebbero delle risorse finanziarie per aggredire i vincoli del Paese. Questa tesi, suffragata dal prezioso articolo di Alessandro Santoro, apparso il 3 gennaio sulle pagine del manifesto, affronta un problema vero del Paese, ma occorre trovare e indicare con precisione a che cosa servono queste risorse aggiuntive, fermo restando il problema della trasparenza dei conti pubblici. Non si tratta solo di recuperare le risorse finanziarie per esercitare il potere pubblico di condizionamento dei fenomeni economici, ma anche di scegliere cosa fare di queste risorse finanziarie. Sul sito «sinistriprogetti» ci sono alcune proposte di rilievo a cui abbiamo partecipato con convinzione. L'aspetto che intendiamo illustrare è quello della politica industriale, cioè abbiamo fatto finta di essere il ministro delle attività produttive.

Lo spostamento delle economie industrializzate su modelli di produzione a più alta intensità tecnologia determina un incremento sostanziale degli scambi di natura tecnologica da parte dei singoli paesi, modificando le condizioni di equilibrio dei conti con l'estero e con questo la capacità di ciascun sistema economico di realizzare la propria creazione di risorse. Mentre il mercato internazionale ed europeo si specializzava nei beni di investimento e intermedi, con alti tassi di crescita, l'Italia si specializzava nei beni di consumo, con bassi tassi di crescita e un'accentuazione della competitività da costo dei fattori, rispetto ad una competitività tecnologica. Solo in questo modo si spiega la minore crescita economica dell'Italia comparata all'Europa. La dinamica del commercio estero del Paese è lo specchio più fedele di questa crisi. Se la quota dell'export manifatturiero tra il 1990 e il 2003 è diminuito del 25% (dal 6,3% al 4,7%), quello del settore hi-tech (farmaceutica, termomeccanica, chimica, materiali, automazione industriale, Tlc ed elettronica di consumo, strumentazione, componenti elettronici, areospazio), già più bassa di quella degli altri Paesi europei, è calata del 41% (dal 3,6% al 2,1%). Sostanzialmente il Paese ha un ritardo stimato in 30 anni rispetto ai paesi più avanzati. Un ritardo che non può essere recuperato solo con «il mercato», ma con provvedimenti ad hoc e con ottiche di medio-lungo periodo. In termini generali, si tratta di ripensare la strumentazione istituzionale per una nuova politica di programmazione. Il fine è quello di definire un quadro delle misure da attuare nei primi «cento giorni» teso ad avviare un generale processo di riconversione tecnologico-produttiva del nostro apparato economico.

Le misure di politica economica suggerite sono finalizzate ad un diverso utilizzo delle risorse statali destinate all'aiuto alle imprese nella forma di trasferimenti correnti e in conto capitale, unitamente ai crediti di imposta. Le risorse disponibili, nel 2004, erano pari a 8,9 miliardi di euro per le sole agevolazioni; 0,5 mld di euro per gli interventi decentrati; 2 mld di euro per gli interventi regionali. Se la struttura dei finanziamenti alle imprese è frammentata, la destinazione per obiettivi manifesta più di una perplessità. Il 50% delle risorse pubbliche agevola degli investimenti con una scarsa specializzazione e selettività.

In termini generali sono due gli assi di intervento che suggeriamo. Il primo asse interessa il consolidamento e l'avanzamento delle conoscenze in essere dell'attuale struttura produttiva, il secondo asse agisce sulla capacità di generare innovazione tecnologica, cioè una misura che cerca di anticipare la domanda.

La prima misura agisce sul costo del lavoro della ricerca presso le imprese private. Si immagina una misura che finanzia, in termini significativi, la ricerca e sviluppo costituita dal lavoro di chi fa ricerca, riconosciuto attraverso una certificazione giuridica, con la costituzione di organismi destinati alla verifica, unitamente al finanziamento dei progetti destinati alla ricerca e sviluppo delle imprese realizzati con il concorso dei centri di ricerca pubblici e privati.

La seconda misura punta a sviluppare la capacità di generare innovazione tecnologica radicale, in settori in cui l'Italia vanta ancora un qualche vantaggio comparato, o una qualche motivazione specifica rispetto alla concorrenza internazionale. Il tutto su una base realistica delle capacità industriali e delle competenze esistenti, unitamente allo sviluppo di progetti strategici per il Paese in cui l'obiettivo e il soggetto pubblico sono prevalenti. Tali progetti devono essere indicati sulla base di criteri e priorità condivise e avere una rilevanza strategica, non tanto in termini temporali, piuttosto in termini di trasformazione strutturale. Si tratta di sostenere la capacità di proposta dei centri pubblici (Enea, Università, Cnr) nei progetti che, oltre alle reali prospettive di mercato, hanno motivazioni o valutazioni trascurate dall'attuale struttura economico-produttiva.

* vicedirettore Enea** Cgil Lombardia

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