Ci sono occasioni in cui non si sa se preferire l'Alvin Curran musicista o l'Alvin Curran scrittore. Una è questa: l'uscita in un box di quattro cd (Longdistance, distr. Harmonia Mundi) del ciclo Inner Cities per pianoforte. Nel booklet che accompagna la raccolta il compositore di Providence, Rhode Island, ma anche di Roma, Italy (dove risiede per la maggior parte del tempo), spiega dove, come, con chi si possono trovare le «città intime» del titolo. Ed è un tourbillon di almeno un centinaio di situazioni possibili: fantasiose e eccitantissime. Ecco, quindi che Inner Cities è là dove voi andate «per guardare Cage e Braxton impegnati in una partita a scacchi», «per fare l'amore con una Figlia del Reno ebrea», «per cucinare funghi porcini per Luigi Nono a Berlino», «per osservare da una finestra di Piazza Navona Sartre e Beauvoir che bevono un Campari». Ma va detto subito che questo scritto scintillante, in linea con la natura istrionica e polimorfa (e affettuosa) di molta musica di Curran, introduce, invece, la musica più unitaria, quieta e lineare che questo compositore abbia mai scritto. La scelta di tradurre il titolo con «città intime» deriva anche da ciò: dall'atmosfera di raccoglimento, di lirismo pensoso, di meditazione distesa, di evocazione serena sia pure con molti tocchi di mestizia. Sono undici brani, Inner Cities da 1 a 11, per oltre quattro ore e mezzo di musica. Il più lungo è il n. 10 e dura 51 minuti e 30 secondi, il più corto è il n. 5 e dura 3 minuti e 20 secondi. Il pianista belga Daan Vanderwalle ha la giusta rilassatezza e il suono limpido-morbido per interpretare come si deve quest'opera che è come una lunghissima suite. Minimalismo senz'altro in primo piano. A cominciare dal solenne, quasi funebre, Inner Cities 1, giocato su un solo accordo e su una melodia di una sola nota, che viene sì ripetuta moltissime volte ma è sempre immersa in una trama per niente fitta di suoni molto armonici (proprio nel senso classico). Il minimalismo ha sempre riguardato la personalità poliedrica di Curran: qui viene privilegiato. L'autore stesso parla di «nuova semplicità» a proposito di Inner Cities e si sa che la formula ha avuto applicazioni buone (il primo Wolfgang Rihm, per esempio) e cattive (i neoromantici italiani, per esempio). L'applicazione di Curran è buona, buonissima: semplicità armonica (soprattutto) al servizio di itinerari assai liberi, imprevedibili per la loro asciutta sentimentalità. Poche volte Curran interrompe l'atmosfera dolce e riflessiva di questo suo lavoro. In Inner Cities 3, per pianoforte giocattolo, dove l'andamento minimal è serrato e ossessivo; in Inner Cities 5, un brano informale o free; in Inner Cities 9, dove si ascolta una sequenza di sapore «barbaro» per dirlo in lingua bartokiana; nel finale di Inner Cities 10, una sorta di improvvisazione tra il romantico chopiniano battagliero e il jazz pre-ceciltayloriano. Poi si trovano inusitati (per Curran) arpeggi decorativi e melodie di poche note del tutto affabili.