LETTERE

Gli accordi bilaterali hanno diviso il sud

WTO
CASTELLINA LUCIANA,CINA/HONG KONG

Dopo due consecutivi successi dei movimenti (e con loro dei più poveri della terra ), a Seattle e a Cancun, il vertice dell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc) di Hong Kong ha dato invece un pessimo esito. Politico ancor prima che commerciale, e questo è persino più grave. Perché il vero fatto nuovo che si era verificato, nel `99, in California, ancora in forma embrionale, nel 2003, in Messico, in forma molto esplicita, era stata la storica saldatura in un unico blocco dei 70 paesi meno sviluppati con i 20 paesi che sebbene anch'essi del sud del mondo, sono dotati di qualche potere contrattuale, sia perché già commercialmente significativi, sia perché alcuni di loro forti di una nuova e assai più autonoma leadership di sinistra: il Brasile e il Sud Africa, innanzitutto, ma anche l'India, dove era appena tornato al governo il partito del Congresso che sembrava intenzionato ad assumere una più combattiva posizione. Per la prima volta il nord aveva dovuto accettare lo scacco: il suo diktat non era passato e subito alti lai avevano pianto quello che chiamarono «il fallimento» di Cancun, che noi chiamammo «vittoria». Questa volta non è andata così: europei e americani sono riusciti a dividere il sud, cooptando i più ricchi dei più poveri e lasciando i poverissimi sempre più isolati e battuti. Nonostante l'appoggio generosissimo di un gran numero di militanti accorsi da ogni parte del globo nella ex colonia ora quasi Cina per dar loro manforte. Perché dell'accesso dei loro prodotti agricoli ai mercati occidentali, nonostante la mitologia degli apologeti del liberismo, ai 70 paesi più poveri non può interessare di meno, non avendo essi proprio niente da esportare, le loro economie essendo estranee al commercio internazionale, ed essendo invece distrutte dalle importazioni dei grani e delle sementi manipolate delle multinazionali dell'agroindustria. Non è un caso che a protestare a Hong Kong ci siano stati soprattutto gli straordinari e coraggiosissimi contadini coreani, e che ci fosse Raphael Alegrìa, presidente di Via Campesina, e però un po' meno Ong occidentali. Che peraltro, quando l'incrinatura già si delineò e per la prima volta si cominciò a parlare dei c.d. «Fip», che sta per le «cinque parti interessate» (i tre grandissimi fra gli esportatori agricoli e i due più forti dei deboli) - in un vertice a Ginevra, l'anno passato - della scadenza non si erano quasi accorte, perché assai meno pubblicizzata.

Una prova ancora che se è giusto manifestare in occasione di eventi clamorosi per via del valore simbolico che essi hanno, non si può poi dimenticare il follow up. Tanto più nel caso dell'Omc, i cui negoziati, un po' più visibili in occasione dei summit, diventano ancor meno trasparenti a Ginevra dove si tratta della sostanza e dove i paesi più poveri non possono mantenere stuoli di esperti e di avvocati come i loro partner più facoltosi.

E comunque c'è poco da rallegrarsi anche per il gruppo dei 20, perché quando si va a guardare l'accordo sull'agricoltura ci si rende conto che ancora una volta il nord ha fatto il gioco delle tre carte. I famosi sussidi che il nord arrogantemente conserva per poter abbassare i prezzi dei prodotti sul mercato internazionale e così mettere fuori gioco tutti i concorrenti che non se li possono permettere, nonostante il suo gran parlare di competitività rigorosa, sono di due specie : quelle di diretto sostegno all'esportazione (sussidi e crediti) contenute nella c.d. blue box, e quelli domestici e meno distorcenti (aiuti diretti alla produzione) contenute nella c.d. green box. Ora si dà il caso che già subito dopo il molto sbandierato accordo della Blair House, nel 2004, che annunciò la sia pur graduale rinuncia da parte del nord ai suoi sussidi, una buona parte di questi era stata trasferita, con un gioco di bussolotti, nella green box, esclusa, almeno per ora, da ogni riduzione.

Quel che è accaduto a Hong Kong non è solo il rinvio di ben 7 anni di ogni abbattimento ma anche che le misure previste riguardano ormai solo una percentuale degli aiuti, salvi restando molti e molti e molti miliardi, quelli previsti dalla ancor viva e vegeta green box. I primi dei poveri - come si vede - sempre poveri sono e sempre giocati dai ricchi rimangono quando perdono la forza dell'unità del blocco cui appartengono. La loro miopia alla lunga non premia.

Male è andata anche per la Nama (Non agricultural market access): è stata infatti allargata la griglia dello scambio di merci a tutto vantaggio dei paesi industrializzati, mentre la concessa apertura dei mercati ricchi alle esportazioni di questo settore verso il nord contiene una piccola ma rilevantissima eccezione: un'inezia, solo il 3%. Si dà il caso che nella lista del restante 97% che potrà liberamente entrare nei nostri mercati dall'Uganda o dal Bangladesh c'è ben poco che davvero potrà esser esportato visto che si tratta di beni che questi paesi non producono e difficilmente produrranno per parecchio. C'è persino inserito un bene che sembra una ironia di cattivo gusto: gli aerei. Nel 3% sono invece inclusi i soli beni che il sud potrebbe esportare ma verso i quali il nord ha pensato bene di proteggersi. (Valga per tutti il tessile).

Infine i servizi, che peraltro sono la cosa più grossa visto che rappresentano il 70% dell'interscambio mondiale: dalle banche, alle assicurazioni, alle telecomunicazioni, ecc. E quando si dice telecomunicazioni si dice oramai anche audiovisivo, visto che è difficile distinguere un telefono da un televisore, con buona pace della fragile protezione garantita alla nostra sovranità in materia di politica culturale dall'eccezione culturale (che non è peraltro mai stata tale, consistendo solo in una rinuncia a offrire l'apertura dei propri mercati alla liberalizzazione dei beni culturali). Su questo a Hong Kong non si è deciso niente di appariscente, e però si è aperta la strada alla liberalizzazione cui pure tutti paesi in via di sviluppo si erano e si sono anche questa volta fieramente opposti: attraverso un'ambigua a pericolosa modifica dei modi negoziali. La cosa è stata decisa, come sempre quando c'è una consistente opposizione, in una green room, una stanza chiusa dove vengono invitati solo quelli che sono d'accordo.

Molti commentatori infatuati dell'Omc hanno detto che ora il pericolo maggiore consiste negli accordi bilaterali che stanno dilagando perché, sebbene alla fine vincano, i grandi si sono stufati di perdere tanto tempo a discutere con i piccoli che contano così poco in termini di commercio e si fanno per di più accompagnare da rumorosi e fastidiosi no global. Hanno ragione: gli accordi bilaterali sono ormai la via preferita in particolare dagli Usa che riescono a far ingoiare ai più deboli cose che in un consesso multilaterale non accetterebbero. Ma questo non vuol affatto dire che allora sarebbe bene conservare strettamente l'Omc, quasi fosse l'Onu. Non è così: la filosofia che è alla base di questa istituzione commerciale non può esser cambiata, essa prevede una progressiva e automatica liberalizzazione degli scambi, senza tener conto alcuno delle conseguenze che questo processo determina nei paesi più poveri, dove - lo dimostrano le cifre - tanto più aumenta il commercio internazionale, tanto più aumenta l'indigenza.

Altro sarebbe stato se la Carta, varata nel 1948 all'Avana, dove si riunì per la prima volta l'antenata della Omc, fosse stata adottata. Non lo fu perché gli Usa si rifiutarono di ratificarla. In essa si diceva che fra i criteri di cui si doveva tenere conto per abolire il protezionismo doveva comparire la piena occupazione. Sembrò a Washington un'indicazione troppo dirigista.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it