MONDO

Zenawi trasforma l'Etiopia in una grande prigione

MANFREDI EMILIO,ADDIS ABEBA

Nella disattenzione generale, il governo etiope, guidato dal primo ministro Meles Zenawi, sta sopprimendo ogni forma di dissenso politico interno. Dopo le elezioni dello scorso maggio, pesantemente contestate dall'opposizione che ha accusato il partito al potere di brogli, ogni voce critica è stata messa a tacere. La leadership politica del principale partito d'opposizione (il Cud) è stata a lungo attaccata, e poi incarcerata, in concomitanza delle proteste di piazza di novembre. In isolamento dal 2 novembre scorso, i membri del comitato esecutivo del Cud sono comparsi in una serie di udienze condotte dall'Alta Corte Federale, che secondo molti osservatori lasciano grossi dubbi circa la separazione dei poteri nel paese del Corno d'Africa. Assieme ai politici (che stanno portando avanti uno sciopero della fame in segno di protesta), in prigione si trovano molti esponenti della stampa indipendente locale, che ha visto molti giornali chiusi dalle autorità, accusati di sostenere l'opposizione nel fomentare il caos. L'ultima seduta di questo processo, ha visto i giudici confermare le accuse a carico di 131 detenuti, tra uomini politici e giornalisti. Si va dall'«alto tradimento» al «genocidio». Alcune di queste imputazioni prevedono la pena di morte.

La popolazione, che in almeno due occasioni, dopo la tornata elettorale, era scesa in piazza nella capitale Addis Abeba e nelle città per protestare contro la linea di Zenawi, è terrorizzata dalla dura repressione militare messa in atto in novembre. Ancora oggi, decine di migliaia di persone, prelevate nelle case durante i rastrellamenti di quei giorni, non sono rientrate a casa. «Non so più a chi rivolgermi», racconta Hewot, farmacista. «Mio fratello ha solo sedici anni, lo hanno portato via da casa ormai un mese e mezzo fa. Ma alla stazione di polizia dicono di non sapere nulla. Mi hanno anche minacciato, dicendomi di non tornare». Secondo diverse fonti locali, nei campi di detenzione di Deddesa, Bir Seleqo, Zewai sarebbero detenute circa centomila persone. Di certo, chi da quelle prigioni è rientrato, le descrive alla stregua di gironi infernali. «Venivamo picchiati ogni giorno. Torturati. Braccia e gambe spezzate. C'era gente con ferite da arma da fuoco non curate. I feriti lasciati a terra, a morire lentamente», racconta un giovane che nel campo di Deddesa è stato detenuto. «Eravamo costretti a camminare sulle ginocchia, senza pantaloni, per ore, nel cortile del campo», ricorda un altro uomo. Anch'egli chiede l'anonimato. «Si formavano pozze di sangue. E i carcerieri ridevano, dicevano che così ci saremmo scambiati le infezioni, come meritavamo», aggiunge.

Testimoni locali raccontano di fosse comuni, in cui centinaia di detenuti sarebbero stati sepolti dopo essere morti di malaria, colera, infezioni, o a causa delle percosse subite. Da più parti accusato di gravissime violazioni dei diritti umani, Zenawi smentisce tutto, e dichiara che una commissione di inchiesta valuterà queste situazioni. Ad oggi, nessuna organizzazione internazionale, né tantomeno la stampa, è stata autorizzata a visitare i detenuti.

Mentre il Parlamento europeo, alcuni giorni fa, ha votato una risoluzione in cui si chiede al governo l'immediato e incondizionato rilascio dei politici e dei giornalisti arrestati e il rispetto dei diritti umani, dei principi democratici e la restaurazione della legalità, nulla sembra far retrocedere Zenawi dalle sue prese di posizione. Il primo ministro non sembra nemmeno preoccuparsi di possibili tagli agli aiuti economici da parte della comunità internazionale.



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