CULTURA

Musei malati di gigantismo

RIBALDI CECILIA,ITALIA

NNell'arco del 2006 quattro grandi musei americani - l'Indianapolis Museum of Art, l'Akron Art Museum dell'Ohio, il Denver Art Museum e il Phoenix Art Museum - si presenteranno al loro pubblico in una nuova versione, ampliata e «aggiornata». Già dalla fine degli anni Novanta del resto si è delineata una tendenza all'espansione delle collezioni d'arte pubbliche e private, negli Stati Uniti e non solo: una tendenza che sembra destinata ad accentuarsi, visto che, oltre agli esempi citati, altri musei come l'Art Institute of Chicago o il Museum of Fine Arts di Boston hanno già approvato più o meno faraonici piani di allargamento, affidandone i progetti ad architetti famosi, da Renzo Piano a Norman Foster. Proprio il direttore dell'Art Institute of Chicago, James Cuno, ha spiegato questa crescita degli spazi museali, affermando che «rispetto a venticinque anni fa i musei offrono oggi molto di più, in termini di collezioni permanenti, di esposizioni temporanee, di sale per conferenze o per concerti, di librerie, di caffè e ristoranti». Del resto, basta varcare la soglia di un qualsiasi museo straniero per rendersi conto di questo «aumento di offerta». E anche in Italia, dove pure il fenomeno è ancora in una fase embrionale rispetto a quanto accade negli Stati Uniti, in Francia o in Gran Bretagna, questa espansione è in atto, come testimoniano i lavori in corso presso il Macro e il Maxxi a Roma o quelli che si sono conclusi non molto tempo fa al Mart di Trento e Rovereto. Ma per capire meglio la trasformazione in atto nelle grandi raccolte di tutto il mondo, può essere utile fare un passo indietro, prendendo avvio da un libro uscito per il Saggiatore nei mesi scorsi, Storie di musei. Il direttore del Louvre si racconta, che ricostruisce l'evolversi della museografia francese del dopoguerra nelle parole di uno dei suoi protagonisti, Michel Laclotte, storico dell'arte e conservatore nelle più alte cariche dei musei di stato. Responsabile per vent'anni del dipartimento di pittura del museo del Louvre, di cui è divenuto in seguito il direttore, Laclotte racconta sotto forma di intervista la sua vita - tutt'uno con la sua professione di conservatore - descrivendo nei dettagli gli aspetti pratici e intellettuali che costituiscono la specificità del mestiere, dall'attività di ricerca, di catalogazione, di connoisseurship ai problemi di tutela, di conservazione, di sicurezza e di allestimento di opere. La carriera di Laclotte - che si è formato nel dopoguerra in un contesto dominato da grandi personalità, come André Malraux, André Chastel, Louis Grodecki, Charles Sterling e Roberto Longhi - si sviluppa in un'epoca che ha prodotto grandi innovazioni in campo museale, dalla creazione del Centre Pompidou (1977) alla istituzione del musée d'Orsay (1986), fino al riallestimento del Grand Louvre e alla riorganizzazione dei suoi spazi ad opera di Pei.

Per questo, la biografia di Laclotte, che in tutte queste operazioni è stato a vario titolo coinvolto, consente di seguire meglio il passaggio del museo da «semplice» contenitore di collezioni a grande «macchina mediatica», ponendo al tempo stesso alcuni spunti di riflessione: primo tra tutti la quotidianità di rapporto che i grandi musei sviluppano con il mercato delle opere d'arte. Acquistare opere è una attività quotidiana e centrale dei conservatori dei musei - non solo di quelli di nuova costituzione, ma anche (o anzi soprattutto) di quelli a carattere enciclopedico come il Louvre, che mirano - nel loro sogno di totalità - a conquistare il pezzo mancante per esibire una collezione «completa».

Fin dalla sua nascita, il Louvre di cui parla oggi Laclotte rappresentò il prototipo di museo pubblico, il luogo dove prese avvio l'idea di realizzare una super-collezione che doveva servire sia a salvare le opere dal vandalismo rivoluzionario sia a costruire il più grande manuale di storia dell'arte di tutti i tempi. Nata dalla nazionalizzazione violenta dei beni reali ed ecclesiastici e dalle razzie di guerra, la collezione ha così unito opere provenienti da diversi contesti storici e culturali. E per dare un senso a questa operazione, una consapevole strategia di stato ha cancellato i significati originali delle opere, veicolandone altri e adottando come strumento per ottenere tale risultato la scelta dell'ordinamento, l'imposizione insomma di un valore e di un ordine razionale sugli oggetti raccolti.

La vasta collezione che promette totalità, creando l'illusione di una rappresentazione del mondo, sradica gli oggetti dai loro contesti specifici ed elabora un complesso schema di classificazione per esporli in modo tale che la realtà della raccolta vada a sovrapporsi alle storie specifiche di produzione e di appropriazione. Nel museo moderno, dunque - come sottolinea Susan Stewart in On Longing: Narratives of Miniature, the Gigantic, the Souvenir, the Collection (John Hopkins University Press, 1984) - un illusorio rapporto tra gli oggetti si sostituisce a un rapporto sociale. L'esposizione non è mai una azione neutra perché gli oggetti - decontestualizzati, in quanto provenienti da collezioni private, da luoghi religiosi, o bottini di guerra - sono di per sé muti, mostrano il loro aspetto materiale ma non rivelano alcun significato. Il valore che acquisiscono all'interno di un contesto viene dato dai curatori che vi fanno confluire il loro bagaglio di conoscenze. Così la collezione d'arte pubblica, pur lasciando supporre la possibilità da parte di tutti di comprendere ciò che viene mostrato e i criteri che ne hanno determinato l'esposizione, si fonda in realtà sull'esistenza di codici che appartengono solo a una conoscenza specifica o, come fece notare negli anni Settanta il sociologo Pierre Bourdieu, a una classe di «privilegiati».

Proprio la continua espansione della collezione, tuttavia, determina anche la discussione e la ridefinizione dei significati e dei valori degli oggetti. Una raccolta di saggi, The New Museology, manifesto della nuova museologia britannica, pubblicata a cura di Peter Vergo alla fine degli anni Ottanta, insisteva sulla continua trasformazione di significato a cui sono soggette le opere poste all'interno delle collezioni dei musei. Ogni nuova acquisizione di opere e ogni nuovo allestimento nascono da giudizi di valore di carattere estetico o economico, in ogni caso opinabili e legati al carattere peculiare dell'istituzione museale e alla professionalità e al gusto individuale del conservatore e al suo bagaglio di conoscenze. Collocare oggetti e opere in un contesto espositivo, significa prendere posizione, esprimere una certa visione culturale e storica. Non solo la scelta degli oggetti e il loro ordinamento ma anche la preferenza dell'allestimento e la percezione dello spazio espositivo mutano con i tempi. Se nell'Ottocento le gallerie erano buie e ingombre di oggetti, nel Novecento la nascita dei depositi e le teorie sulla percezione visiva hanno prodotto il diradarsi del loro numero fino a creare l'effetto white cube dove la spazialità vuota mira a caricare di significato e di «aura» le poche opere esposte.

La consapevolezza dell'impossibilità di essere imparziali è una conquista recente. Non lo era però nel 1986 quando l'apertura della collezione del Musée d'Orsay, progetto a cui prese parte lo stesso Michel Laclotte, suscitò scalpore. Nello spazio di una antica stazione ferroviaria, riadattata dall'architetto Gae Aulenti, il museo fu concepito come un luogo di tutte le arti, dove opere di correnti e di genere diverso trovavano posto le une accanto superando il criterio tradizionale della scelta di eccellenza. La selezione e la collocazione delle opere mostrarono così al pubblico una storia dell'arte dell'Ottocento completamente stravolta rispetto ai canoni vigenti, segnando una svolta museologica importante. Nel confronto con lo spazio dedicato gli impressionisti il risalto assegnato ai pittori pompiers, con opere come la famigerata Nascita di Venere di Cabanel collocata in corrispondenza alla Olympia di Manet, fu giudicato eccessivo, e i curatori vennero accusati di revisionismo storico e di monumentalità espositiva. Analogamente, un aspro dibattito si sviluppò in Gran Bretagna quando venne aperta la nuova Tate sulle sponde del Tamigi. In entrambi i casi a suscitare perplessità fu la creazione e la riorganizzazione della collezione, ma forse ciò che si faticava ad accettare era il cambiamento di prospettiva rispetto all'istituzione museale, la sua perdita di autorevolezza e di capacità legittimante.

Gli anni Ottanta rappresentano insomma un periodo di svolta nel museo. Quasi tutti i cambiamenti, negativi o positivi che siano, si sperimentano in questo decennio: musei di nuova concezione, esposizioni innovative, nuovi allestimenti. La museologia muta il proprio linguaggio e amplia il proprio contesto di influenza. Ma è soprattutto l'esplosione del turismo culturale a introdurre un nuovo elemento fondamentale nell'organizzazione del museo: il pubblico. L'aumento del numero di visitatori genera l'esigenza di creare spazi con funzionalità diversa dalla semplice fruizione estetica: spazi di disimpegno e spazi commerciali. Ad aprire la strada a questa trasformazione era stata, nel 1977, l'enorme e riconoscibile struttura vetrata con i tubi colorati del Centre Pompidou realizzata da Renzo Piano e Richard Rogers nel centro di Parigi: il Beaubourg è il primo museo che capovolge il rapporto proporzionale tra lo spazio destinato all'esposizione e quello destinato ad altre attività, il primo che introduce la creazione di edifici museali dall'architettura grandiosa e simbolica la cui presenza diviene l'elemento qualificante del tessuto urbano.

Da allora il museo, da contenitore di collezioni, è divenuto una potente macchina di comunicazione. Il cambiamento sottolineato dall'architettura ha reso il museo l'elemento di riferimento (landmark) urbano e territoriale, rafforzando il rapporto con la città di cui si è fatto catalizzatore sociale, fino a giungere alla «impresa Guggenheim» in cui si verifica l'avvenuto ribaltamento di ruoli: dal contenuto al contenente, dalla centralità della collezione a una architettura che si erge a opera d'arte in sé.

L'ingrandimento delle collezioni permanenti è insomma solo uno dei motivi responsabili dell'espansione fisica dei musei che dalla metà degli anni Ottanta hanno iniziato a raddoppiare le sedi o a dotarsi di nuove ali. L'analisi delle nuove strutture sottolinea quindi l'impossibilità di estrapolare una idea univoca di museo, che diventa una istituzione in bilico tra la cattedrale e lo shopping mall. Rimane come dato di fatto la trasformazione irrefrenabile dei musei in grandi aree dell'intrattenimento sulla scia dei mutamenti comuni anche in altri campi della vita sociale: una tendenza al «gigantismo», all'accentramento di funzioni e all'esibizione di potere economico attraverso la grandezza degli edifici a scapito della funzione originaria. L'esperienza estetica che il museo offriva ai visitatori è ormai un elemento secondario rispetto ad altre attrattive e l'investimento economico per l'espansione di spazi destinati ad attività diverse aumenta senza sosta. In ogni caso, il tempo trascorso dai visitatori all'interno dei musei risulta maggiore negli spazi adibiti al commercio che in quelli espositivi. Immaginare le conseguenze di questa trasformazione è difficile da prevedere. Come è difficile, al di là delle perplessità, assumere una posizione netta. Spiazza e si fatica ad accettare il cambiamento dell'istituzione museale, e in particolare la perdita di autorevolezza che questa trasformazione commerciale denuncia. Ma è proprio la sua posizione contraddittoria e ambivalente a rendere il museo, in quanto luogo sociale preposto alla trasmissione della cultura visiva, chiave paradigmatica dei nostri tempi.

La produzione di sapere all'interno del museo avviene attraverso l'esposizione di oggetti e presuppone sempre l'attivazione di meccanismi interattivi tra il produttore e il destinatario. All'interno di questo sistema gli oggetti diventano segni, e il sapere che generano risulta strettamente legato al modo in cui questi vengono strutturati all'interno del sistema. L'intera operazione espositiva si trasforma in una metanarrazione in cui le opere esposte sono le parole di un discorso, e la contraddizione risiede nell'idea che gli strumenti a disposizione del museo - ossia i criteri razionale di acquisizione, classificazione e ordinamento delle opere - siano indiscutibili.

Se ne accorsero per prima gli artisti che fin dagli anni Settanta cominciarono a trovare gusto nel parodiare il sistema del museo. Solo di recente però, sulla scia della diffusione della critica postmoderna, quasi come una moda è dilagata la voglia di analizzare da vicino i processi di organizzazione e di trasmissione del sapere all'interno dei musei. Nell'ultima Biennale d'Arte di Venezia si sono visti due lavori di questo orientamento: se nell'Arsenale l'opera dell'architetto Rem Koolhaas metteva in primo piano l'esperienza dell'Ermitage di Pietroburgo, ai Giardini nel padiglione spagnolo On Translation di Antoni Muntadas esortava il pubblico all'impegno nel percepire i processi di interpretazione e i codici che qualsiasi luogo culturale mette in atto.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it