I corpi sezionati, con gli organi ben in vista, gli occhi fuori dalle orbite, gli atteggiamenti «sportivi» vissuti un tempo, sono il materiale estetico di una mostra apertasi ieri al South Street Seaport Center, a New York. 260 pezzi di organi gettati in faccia allo spettatore. Ma nulla in quelle teche è in lattice o in cera: è tutto vero e i cadaveri vengono direttamente dalla Cina. Sono stati preservati in silicone liquido e trattati per mantenere l'aspetto «originario». La galleria degli orrori desta naturalmente scandalo e la mostra si prefigge uno scopo scientifico: «incoraggiare un comportamento salutare, facendo confronti fra un polmone di un fumatore e quello di un individuo che non tocca sigarette». Eppure, fra le pieghe della pelle di chi non c'è più, va in scena una devastante estetica della guerra. Se l'horror non è fiction, il suo linguaggio diviene rozzo e di questi tempi, rischia la sovrapposizione con la realtà (che riesce a essere ben più sconvolgente ma in pochi insorgono). Andres Serrano, l'artista che per primo entrò negli obitori degli States suscitando mille polemiche, aveva fotografato i cadaveri per produrre una sorta di contro-informazione. Non c'era voyeurismo in lui né nella sua operazione: la maggior parte di quei bambini donne e uomini erano neri, erano morti in modo violento e rappresentavano un sottotesto invisibile di ciò che non si «narra» mediaticamente. I poveri, negli Usa, muoiono così, senza pietas. Anche qui da noi, a Torino (ma era presente alla Biennale di Venezia), ha destato scandalo l'artista thailandese Araya Rasdjarmrearnsook che in un video filosofeggia sulla fine, impartendo una lezione a una classe costituita di morti. La sua, però, era una morte «orizzontale», come quella dello tsunami, che ha portato via tutti, lontana anni luce dalla brutalità che l'immaginario della guerra ha inoculato nei nostri (globali) cervelli. (a. di ge.)