CULTURA

Sulla scena del corpo, l'indomita domesticità di Kiki Smith

INTERVISTA
DI GENOVA ARIANNA,ITALIA/ROMA/USA/NEW YORK

Un'infilata di stanze poetiche, sospese fra mitologia e fiabesche apparizioni domestiche. Era questo il percorso «disegnato» da Kiki Smith a Venezia nelle sale del palazzo della Fondazione Querini Stampalia. Lo spazio era invaso da un esercito silenzioso di bambine, quasi fatine scese dai boschi fin dentro alle case, miniature in biscuit, e da altre bronzee divinità di un quotidiano coniugato al femminile che rimandava all'intreccio di radici di generazioni antiche, a quel groviglio emozionale che accompagna l'esistenza di ognuno. Una storia dell'identità divisa per stanze. L'artista Kiki Smith, tedesca di nascita ma cresciuta in New Jersey (vive a New York dal 1976) è approdata a Roma con una personale presso la galleria Lorcan O' Neill, dal titolo On and About (visitabile fino a metà dicembre), che comprende sculture e disegni. Qui tornano le sue piccole «girls», spiritelli delicati e solitari che sembrano souvenir usciti dalle soffitte di altri tempi. Non immagini piene, carnali, materne. Piuttosto, esili esistenze, poste sul confine di uno spazio in un equilibrio precario. Sedute, sdraiate, in piedi, quelle donnine votive sembrano appartenere all'universo del sogno, sempre in bilico, poco simmetriche, figure casuali di un rito da compiersi.

Alle pareti della galleria romana, ci sono invece le sacerdotesse della notte, ragazze con gufi e conigli che sfidano lo sguardo e, in una dimensione di fogli più piccoli, quasi haiku grafici, compaiono alcuni fragili fiori, colorati con striature del sangue dell'artista stessa. Kiki Smith, tunica nera, stencil e tatuaggi sulle braccia a decorare la pelle, che dagli anni Ottanta lavora in qualità di scultrice sul corpo vissuto come luogo di accadimenti organici, su un «body» femminile che infrange i tabù (mestruali e escrementizi), oggi sembra convertita a una figurazione più «malinconica» e meno trasgressiva.

Passa dai boccioli alle statuine di porcellana e l'evocazione della caducità dell'esistenza umana è affidata alla leggerezza dei materiali utilizzati. Non è più tempo per lei di immagini scioccanti, niente rivoli rossi che escono dalla vagina né corpi nudi «imbrattati» di umori terreni, profondamente terreni.

Quella che incontriamo è una donna dal volto comunicativo e simpatico, che ama parlare in una sorta di flusso joyciano, immergendosi nei propri pensieri e sgranando i suoi occhi chiari. Cerca qualcosa mentre segue il filo delle sue parole. Ricorda, mette a fuoco, lascia riaffiorare cose perdute.

Come mai la sua arte oggi racconta «storie domestiche»? E soprattutto, lei è diventata un'artista narrativa?

Per molte persone la narrativa può trasformarsi in una trappola ma a me piace l'idea di poter insinuare qualcosa. Io ho cercato di sollecitare una risposta letteraria a quello spazio veneziano. Il museo era, in fondo, un luogo profondamente «domestico»: la Fondazione Querini Stampalia era una casa il cui terzo piano è stato demolito e ricostruito con mura bianche per farlo diventare un ambiente più adatto alle esposizioni di arte contemporanea. Allora, entrando, puoi immaginare che centinaia di anni fa lì esisteva uno spazio domestico molto attivo. Ci ho scherzato su e pensando al Settecento ho cercato di trovare riferimenti alla storia coloniale americana ma anche alla storia decorativa e domestica; ho mescolato rimandi veneziani e riferimenti coloniali Usa, in una maniera molto ludica, passando di stanza in stanza. Ho dipinto donne al lavoro casalingo - sono immagini dell'Ottocento - mi piaceva che tutto venisse fuori come in uno specchio, come fosse una favola.

Io passo almeno il 50 per cento del mio tempo immersa nella vita domestica, lavoro a casa tutto il giorno. Non cucino molto ma sono interessata alla «domesticità», che ha a che fare con una storia sociale incredibilmente affascinante. Piuttosto che guardare - come è avvenuto con il femminismo - alla politica che esce dalla cucina, io ho voluto procedere all'esatto contrario e ho fatto «entrare» là dentro la politica. È uno spazio fluido, l'ideologia esce e ritorna e ha effetti molto rilevanti in entrambe le direzioni che non considero separate. Per ciò che mi riguarda sono molto interessata, ad esempio, alla storia dell'arredamento, a come ha cambiato i rapporti tra le persone e all'invenzione della famiglia. Sei tu che scegli cosa guardare e quello che cattura la tua immaginazione, non cerco di controllare tutto ciò che si muove intorno. Mi piace pensare a come le persone vivevano un tempo e dato che sono un'artista traduco questi pensieri in cose fisiche, nel tentativo di replicare, riprodurre e poi compiere strane rivisitazioni. Mi interessa anche capire fisicamente come il mondo è costruito e questo è possibile solo attraverso la realizzazione, il «making». Ho frequentato un corso sul Partenone due anni fa e lì ho fatto tutti quei disegni di donne che tengono animali, che fanno offerte (quelle esposte a Roma, ndr.). La mia non è mia una trasposizione letterale ma volevo ricomporre l'idea di offerta, di processione. Non so spiegare il motivo ma è così! L'arte mi deve provocare una reazione, un'idea mi prende per un paio di mesi o due anni, io sono molto soggettiva. So che, in quanto artista, credo a tutto quello che il cervello mi dice di fare e lo faccio; a volte ci vuole molto tempo, altre il processo crea ansia, altre ancora bisogna lasciare scivolare tutto via. Succede che io mi chieda perché ho fatto una certa cosa, perché proprio in quel modo così strano. Ma so che lo schema generale è giusto. Per esempio, nel caso delle piccole statuine: in qualsiasi museo votivo al mondo vedi quella forma in una scala minima che ha spesso un effetto tremendo. E allora mi dico: «devo pensare a quella misura». Non mi aspetto che il mio lavoro debba includere tutto il mio essere, le varie sfaccettature, o anche altre valvole di sfogo per la mia persona. Preferisco lasciare che le cose seguano il loro corso naturale.

Ci sono statue femminili piccole ma anche di dimensioni più grandi...

Non so, è un po' un gioco, come in quelle sculture in biscuit che rappresentano una forma figurativa molto interessante. Le sculture da tavolo in porcellana hanno una misura particolare. Per me è interessante esplorare tutte le varie rappresentazioni figurative: questo principio però non è sempre valido, ma in alcuni giorni mi attrae molto. Ognuna di quelle forme ha caratteristiche uniche. E tutte hanno storie culturali molto diverse, linguaggi differenti sviluppati nel tempo. Io non ho mai fatto sculture in piccolo. Quando ero più giovane lavoravo a misura naturale, poi ho capito che esiste una integrità e una misura anche in un'altra scala. Non si tratta di misure del corpo umano ma hanno a che fare con il processo di costruzione delle statue. Anche la miniatura ha una sua integrità. Aspiro sempre a vivere esperienze diverse, confrontarmi con forme storiche differenti. È un modo di imparare, di capire cosa significano per te, cosa succede se rappresenti qualcuno in un'altezza di cinque piedi o dieci pollici. Oltretutto, oggi con il computer posso fare una statua di una misura e poi gonfiarla. La cosa strana è che resta concettualmente e figurativamente una statua ma è più ampliata. È una nuova esperienza.

In una precedente intervista lei parlava a proposito del corpo femminile e rimandava a un senso di vergogna sempre presente. Perché?

È qualcosa di radicato nella mitologia giudaico-cristiana, risale a Eva e in particolare è molto interna al cattolicesimo. La vergogna di Eva è la prima storia femminile che viene raccontata e si intreccia con molti aspetti del proprio sistema di credenze, quello che siamo chiamati a rettificare nella nostra quotidianità. Il corpo è una costruzione sociale ma è anche una un'entità fisiologica che oltretutto muta nel tempo. Non so cos'era in origine, il corpo è molte cose insieme e i suoi elementi, proprio come in una persona, si battono per il controllo fino a arrivare all'affermazione di sé, alla propria presenza.

Suo padre, Tony Smith, era un famoso scultore minimalista. Cosa le ha insegnato in merito al fare arte?

Fino al momento in cui me ne sono andata di casa a diciotto anni, tutto quello che facevo ruotava intorno a mio padre. Mi ha insegnato a fare le cose perché voleva che le realizzassi per lui, ma a volte mi dava anche lezioni di disegno. Sempre per il suo interesse, credo. La cosa più importante è che mi ha inculcato un particolare rapporto con il lavoro. Vedevo l'energia che metteva nel suo lavoro, e fino a dove riusciva a spingersi. Penso di aver ereditato tutto questo, ma posso anche dire che molte cose che faccio hanno una relazione più segreta con lui. Sono caratterizzate, hanno come matrice il suo modo di relazionarsi con la materia. Mio padre collegava insieme le cose sulla carta; anch'io metto in opera gli stessi tipi di collage, con piccoli elementi che si trasformano in cose più grandi. È una tecnica, un'idea che viene da lì. È stata un'influenza fondamentale la sua. La mia casa era sempre piena di persone affascinanti provenienti dal mondo dell'arte. Posso dire che mio padre è stato uno splendido maestro nella mia infanzia. Non come me (ride)... No scherzo, mi piace molto insegnare!

Cosa pensa dell'America e dell'amministrazione Bush?

Non credo affatto che ci sia in corso uno scontro di civiltà. Penso che quello che sta succedendo negli Usa riguardi soprattutto noi, le nostre fantasie, conflittualità. Forse, è la stessa cosa che sta avvenendo in Medioriente, dove sono in corso forti lotte e ridefinizioni. Credo che le politiche più reazionarie riaffiorino sempre quando i giochi sono già fatti, prima hanno già operato ma in maniera più subdola. Le politiche estere di Bush sono state disastrose, anche quelle interne hanno avuto effetti terribili sull'ambiente, sulle relazioni sociali, sul welfare.

Ma la situazione che ci troviamo di fronte non è nuova, nasce come risultato della nostra storia e del nostro rapporto con il resto del mondo e finirà per implodere e farci arrivare al collasso oppure porterà a un cambiamento. E i cambiamenti possono essere di diverso segno.

Potrei dire che gli Stati uniti sono stati uno dei più grandi esperimenti culturali nella storia del mondo. Basti pensare alla recente marcia di Washington, a cui hanno partecipato milioni di persone. In un discorso, uno degli oratori ha detto una cosa meravigliosa: ha affermato che i padri della nostra costituzione erano inondati di creatività. Potrei dire la medesima cosa di me stessa. In termini di mobilità culturale, di possibilità, come artista, sono estremamente contenta di essere cresciuta negli Usa. In questo paese, c'è un enorme influsso di culture differenti, c'è un intreccio di esistenze di grandi potenzialità. Alla fine, si è obbligati al compromesso, che sfocia sicuramente in una perdita culturale. Ma siamo anche di fronte a un'incredibile libertà: quella di non vivere in una cultura specifica. Per la maggior parte, l'America è un paese piuttosto tollerante nella vita quotidiana. Ovviamente lo stesso principio non vale superata la propria frontiera e se si tiene conto del fatto che gli States sono cresciuti sulla pelle degli schiavi, sull'annichilimento di altre vite. Non voglio dire che sia un paese con una storia semplice, però tutto quello che è accaduto in America va tenuto in considerazione. Come artista, non posso non riconoscere che mi ha dato enormi possibilità di espressione, mi ha permesso di entrare in contatto con altre culture, sono stata in costante dialogo con mille posti del mondo. E poi gli Usa hanno una massima ricettività per l'arte contemporanea rispetto ad altri paesi. A parte le armi purtroppo, la cultura probabilmente è la nostra più grande voce di esportazione.

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