CULTURA

La vita che scorre in un clic

DI GENOVA ARIANNA,ITALIA/ROMA

Lui non cerca niente. Quando va in giro lo fa senza una precisa mèta. Semplicemente, cammina, si guarda intorno e alla fine scatta. Succede però che spesso torni sui medesimi luoghi, ripercorrendo le stesse vie, quasi ci fosse una calamita a guidare i suoi passi. E in questi flashback del ritorno incrocia la varia umanità che popola la città. Pompieri, prostitute, ragazzi sbruffoni, preti, corpi freak, amanti, esseri solitari dalla mente «perduta». In scena va allora il mondo degli inclassificabili, gli invisibili, individui che si trovano ai margini delle grandi metropoli e che vivono una loro forma di libertà paradossale, sia essa nel disagio psichico o nella vita raminga di chi è senza tetto né affetti. François Marie Banier, scrittore (a ventidue anni ha pubblicato il suo primo romanzo La Résidences secondaires e poi nel 1985 Balthazar, fils de famille) oltre che fotografo internazionale, alterna nelle sue immagini due tipologie differenti di «eroi»: le icone della strada - clochard, anziani, rapper, animali, ragazzini in maschera - e quelle del mondo del cinema, meta-corpi già passati al setaccio dal grande schermo. Nella sua bella mostra appena inauguratasi a Villa Medici dal titolo Perdre la tête, a cura di Martin d'Orgeval (visitabile fino al 9 gennaio 2006) sfilano i due universi paralleli, con un fil rouge che tutto intreccia, l'espressività del volto, l'intensità del gesto, del sorriso, della smorfia. Può capitare così che a una assorta Jacqueline Picasso e a una dark Silvana Mangano immersa nella penombra di se stessa, si accosti - nell'allestimento di un percorso espositivo - l'anonima esistenza di una vecchietta che fruga nei cassonetti, mantenendo intatta l'eleganza del suo portamento antico. Oppure che il silenzio eloquente di un Michelangelo Antonioni, seduto al tavolo con sua moglie, si intersechi per avventura con il rugoso pensiero dell'artista Louise Bourgeois, o la allegra pipì in strada del fanciullo africano.

«Quando fotografo, mi servo della luce interiore dell'altro - spiega Banier - per questo di rado lavoro in studio, con luci artificiali. Preferisco inoltre che l'altro non sappia delle mia presenza se non all'ultimo secondo: avviene uno scambio, spesso attraverso lo sguardo. Bambino, gobbo, credente, vecchio sanno che quello che portano in giro è l'espressione di migliaia di lotte, di sentimenti, di reazioni alla vita, al tempo che fu il loro, e che una linea contiene tutto questo».

Il punto di fuga della composizione delle fotografie di Banier è sempre nel volto: con una prospettiva rinascimentale «corretta» dal primo piano del cinema degli albori, che colloca al centro dell'inquadratura il «fuoco», il soggetto protagonista, gli esseri umani vengono indagati nella loro emotività. Lo stile è nel sentimento, in quell'anima in faccia che tutti sbandierano in un quotidiano che altrimenti, senza l'occhio del reporter, annacquerebbe e annegherebbe la preziosa unicità di ognuno.

Il «perdere la testa» del titolo, allora, finisce per significare il rischio dell'arte, lo spavento dell'impatto con un mondo totale, quel miscuglio di esistenze che si collocano sulla strada, pianeti aperti, ignoti, fuori dai binari precostituiti, dalle regole sociali. Il ritratto è per Banier un atto quasi estremo, «osceno» nel suo svelare la carnalità delle persone. La calda atmosfera del quadretto famigliare di Emir Kusturica (Normandia, dicembre1992), con più generazioni radunate intorno all'obiettivo finisce per creare un cortocircuito con la serie di scatti Quai François Mitterand, Paris (2004) e la solitudine allucinata della signora che uno dopo l'altro si toglie gli indumenti per sdraiarsi al sole, tenendosi accanto la sua intera esistenza in un paio di buste di plastica.

Intanto, in un intenso bianco e nero, Claude Lévi-Strauss fa capolino, pupille dilatate dall'intelligenza, volto proteso verso l'altro. Tutti i personaggi famosi scelti per il libro edito da Gallimard (che è anche il catalogo della mostra di Villa Medici) hanno in comune, dice Banier, «una certa aria di riflessione nello sguardo che si spinge oltre il cliché dell'artista». Gli altri, gli emarginati e i vecchi sconosciuti «posseggono una certa musicalità. Che sia essa sincera o beffarda, mi rimane famigliare». Sono divagazioni, hanno nel corpo un segno anti-convenzionale simile al fluire dei sogni.

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