MONDO

Liberia al voto per trovare pace

MANFREDI EMILIO,DI RITORNO DA MONROVIA

Sull'edificio che ospita la Commissione elettorale nazionale a Monrovia, da tempo un cartellone segnalava i giorni mancanti alle votazioni. Finalmente il conto alla rovescia si è fermato. Oggi oltre un milione e trecentomila persone si recheranno alle urne in Liberia per eleggere il nuovo presidente, e i membri del parlamento, del più antico Stato indipendente d'Africa, fondato nel 1847 da un gruppo di schiavi liberati provenienti dalle piantagioni di cotone americane. Una data fondamentale nella storia del piccolo paese africano: il vincitore di questa tornata elettorale dovrà governare, nel tentativo di risollevare un paese reduce da lunghi anni di instabilità politica. È almeno dal 1980 - anno in cui il sergente golpista Samuel Doe depose e giustiziò in piazza il presidente Tolbert - che la Liberia non ha pace. La notte di Natale del 1989 poi, Charles Taylor, sanguinario leader dei ribelli del Fronte patriottico nazionale liberiano (Npfl), invase il paese e prese il potere, trascinando la Liberia in una guerra civile lunga quattordici anni che ha distrutto la mente e i corpi di un'intera popolazione. Nell'agosto del 2003, al momento della firma degli accordi di pace in Ghana, il conflitto liberiano aveva prodotto almeno duecentomila morti, ottocentomila sfollati interni, settecentomila rifugiati nei paesi limitrofi. Le già fragili infrastrutture del paese erano collassate. Ancora oggi, nella capitale come nelle zone rurali, nelle baracche non si trova acqua corrente né elettricità. Le condizioni igienico-sanitarie espongono la popolazione a costante rischio di epidemie; i servizi scolastici sono pessimi e hanno prezzi proibitivi, tanto che molte ragazzine si prostituiscono nelle ore pomeridiane per pagarsi la scuola. L'80% della popolazione è analfabeta, l'85% è disoccupata, l'età media è 18 anni, e un bambino su dieci non riesce a sopravvivere. Per non dimenticare la pericolosità sociale e politica degli oltre centomila ex-combattenti, una massa di manovra che, se non aiutata, può trascinare il paese nel caos da un momento all'altro.

In questo contesto sociale, ventidue candidati si battono per la massima carica dello stato. Il favorito è il nome noto di George 'Oppong' Manneh Weah. Un passato da calciatore, molti anni in Italia con la maglia del Milan, prima della fama era un bambino di strada, a Monrovia. Durante la guerra, Weah ha finanziato studi e cure mediche. Fino a prova contraria non è un corrotto. Non ha bisogno d'esserlo. Fa proclami. «Acqua, elettricità, scuole, ospedali, strade!», urla ai liberiani. Ha fondato in fretta e furia un partito, il Cdc (Congresso per il cambiamento democratico), apposta per candidarsi. Fin troppo facile farsi venire in mente il suo presidente ai tempi del Milan. Più interessante chiedersi chi sia il candidato alla vice-presidenza -l'eminenza grigia del partito- , Rudolph Johnson. Già ministro degli esteri ai tempi del regime militare di Doe, legami con gli Stati uniti, segue George come un'ombra. «Avrei potuto correre da solo, ma Weah è unico per i liberiani. Vinceremo al primo turno», ha dichiarato al manifesto.

Secondo alcuni analisti, se l'ex-calciatore non dovesse farcela al primo turno, andrebbe al ballottaggio con Ellen Johnson-Sirleaf, che potrebbe così diventare il primo presidente donna nella storia dell'Africa. Sessantasei anni, economista, ha lavorato per l'Onu. Nel 1997 arriva seconda dietro a Taylor alle elezioni presidenziali, accusando di brogli il suo ex-alleato. Già, perché colei che promette di «portare sensibilità materna e emozioni alla presidenza», è da molti indicata come una golpista con un ruolo non di poco conto nei massacri dei primi anni della guerra civile.

Di certo non sono estranei ai crimini del passato i candidati Roland Massaquio, Sekou Conneh e Alhadji Kroumah. Il primo era ministro dell'agricoltura con Taylor e ne ha preso il posto nel partito, il secondo era un signore della guerra a capo dei ribelli del Lurd. L'ultimo, il leader delle milizie Model di etnia mandingo. L'ombra della guerra non è mai svanita.

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