REPORTAGE

I bambini mutilati di Monrovia

MANFREDI EMILIO,MONROVIA

«Riaccendiamo la luce». In Broad street, una delle arterie più trafficate di Monrovia, un pannello di ferro dipinto ricorda che la città intera fruisce di corrente elettrica solo grazie a generatori. Niente elettricità, niente acqua corrente. Niente. Eppure qui, tra pochi giorni, si dovrebbero tenere le elezioni presidenziali più importanti della travagliata storia del paese. Le prime dopo una lunga guerra civile terminata nel 2003, con l'esilio in Nigeria dell'ex-presidente Charles Taylor, l'arrivo di oltre quindicimila soldati dell'Onu e l'insediamento di un governo di transizione. Tra i candidati, favorito dai sondaggi, spicca il nome di George Weah, già calciatore del Milan, idolo dei giovani liberiani.

Senza luce, senz'acqua

Monrovia, dopo il tramonto, sembra ancora una città in guerra. Piccoli capannelli di persone si raccolgono intorno a vecchie lampade a kerosene, tra i banchetti che vendono sigarette e uova sode, oppure la benzina, che ovunque viene smerciata in vecchi recipienti di vetro che una volta contenevano conserve alimentari. Le luci delle poche auto che si avventurano in città illuminano fiocamente strade difficili da percorrere in automobile, disseminate di buche come sono. La stagione delle piogge che si avvia a terminare ha allagato mezza città, peggiorando ulteriormente la situazione. I canali di scolo sono pieni. Gran parte della popolazione che non ha le possibilità di acquistare acqua pulita per lavare e cucinare, utilizza quella che si raccoglie nelle pozze. Acqua e fango. Questo spiega l'epidemia di colera che, anche quest'anno, ha colpito la popolazione della Liberia. Una malattia semplice da combattere, semplice da evitare. Basta avere accesso ad una latrina. Lavarsi le mani. Comprare acqua pura, cucinare i cibi. Dunque, basta avere soldi. Una malattia che abbatte gli strati più deboli della società. Come i ragazzi che abitano Somalia beach, una spiaggia nel quartiere di Congo Town. Una volta era un'area residenziale. Villette a più piani, a pochi metri dal mare. Nel 1990, dopo l'uccisione del presidente Doe da parte dei ribelli del Npfl guidati da Charles Taylor, la Comunità economica degli stati dell'Africa Occidentale (Ecowas) ha inviato truppe in Liberia nel tentativo di ristabilire la pace.

«In questa zona vi erano postazioni di ribelli e le forze dell'Ecowas hanno bombardato, dal mare, la spiaggia, danneggiando gravemente le nostre case. Siamo scappati, e non siamo mai tornati ad abitare qui», dice Ben Mensah, che da ragazzo vi abitava con la famiglia. «Mio padre è morto senza rivedere la nostra casa. Ora è un rudere, senza soffitti, molte pareti distrutte. In tutta la zona vive una comunità di ragazzi che ha perso tutto durante la guerra. Rifugiati, ex-combattenti, mutilati e invalidi. Famiglie improvvisate, decine di bambini seminudi. Impossibile comprendere i reali rapporti di parentela. Una comunità di giovani che fanno parte della generazione che la guerra civile liberiana ha distrutto. A pochi passi dalle onde dell'oceano, accanto a un tronco d'albero levigato e restituito dal mare, una bambina nuda è scossa da attacchi di diarrea. Il rumore della risacca accompagna, talvolta copre, la voce di Solo, uno degli attuali abitanti di queste case. «Vivo qui con i miei fratelli, prima abitavamo in un'altra zona della città, da cui siamo dovuti scappare a causa dei combattimenti», dice, indicando il rudere di una casa, i buchi delle finestre chiusi con tende di paglia, il soffitto rinforzato da arrugginiti pezzi di lamiera. «Peschiamo nella laguna qui intorno, dove ci andiamo anche a lavare, e fabbrichiamo artigianalmente mattoni, che poi trasportiamo e rivendiamo. Ma siamo in tanti, e non è un lavoro redditizio. Molti di noi, poi, non sono in grado di lavorare e mantenersi. Hanno ereditato handicap dalla guerra».

Alcuni si sono semplicemente ritrovati sulla linea del fronte, durante l'avanzata di uno dei tanti gruppi ribelli che si sono combattuti nei quattordici anni di guerra civile. Altri erano combattenti, ragazzi, uomini e donne reclutati o rapiti e drogati perché combattessero una guerra che ha provocato almeno duecentomila morti e che in alcune fasi è stata scatenata contro determinati gruppi etnici. E che si è estesa fino ad infiammare alcuni stati confinanti, devastando per anni la Sierra Leone.

Gli ex-combattenti sono una delle principali vene aperte della Liberia. Dopo gli accordi di pace, siglati in Ghana nel 2003, l'Onu e il governo di transizione guidato da Gyude Bryant si sono impegnati a disarmare gli oltre centomila miliziani presenti in un paese di tre milioni e mezzo di abitanti, di cui un terzo sfollati o profughi negli stati limitrofi. «Il programma Ddrr (disarmo, smobilitazione, riabilitazione, riconciliazione, ndr) ha finora coinvolto 103.019 combattenti. L'accordo prevede che chiunque deponga le armi riceva in cambio 300 dollari americani per iniziare il proprio reinserimento nella società», afferma Molley Pasawee, liberiano, uno dei funzionari che si occupano del progetto. Ma il reinserimento, nella maggior parte dei casi, non è avvenuto. Molti di loro, spesi i trecento dollari, si sono ritrovati a vivere per strada, ammassati nella capitale o nelle principali città della costa, senza nessuna assistenza economica o sociale, spesso dipendenti da sostanze stupefacenti pesanti. Una massa di manovra che, non gestita, mantiene la Liberia sull'orlo del baratro. Potenziali mercenari per tutte le guerre dell'area. «Gli ex-combattenti sono uno dei nodi cruciali di questa campagna elettorale, e sicuramente il prossimo presidente della Liberia dovrà tentare di gestire il problema. Senza un programma di reinserimento adeguato, queste persone continueranno a minacciare pesantemente la stabilità del Paese», afferma Gibson Jerue, uno dei caporedattori del quotidiano liberiano The Analyst.

G.s.a. compound, uno dei tanti agglomerati in cui vivono coloro che hanno aderito al programma di disarmo. Una decina di vecchi edifici bassi dai muri scrostati e dall'arredamento inesistente, intorno a cui si raccolgono uomini e donne, un passato di guerra visibile negli occhi e sui corpi. Il mancato reinserimento degli ex-combattenti qui è evidente. «Cerco di portare avanti un piccolo negozio di alimentari, ma qui i soldi sono pochi, è molto difficile tirare avanti», afferma Jerry. «Spero che il nuovo presidente della Liberia si prenda cura di tutti coloro che si sono persi nella guerra», conclude.

Qui c'era una banca

A ogni angolo, in palazzi fatiscenti dove si assiepano centinaia di persone, tentando di sopravvivere in stanze fetide e diroccate, il problema-Liberia si ripropone. «Questo palazzo una volta era una banca, e qui all'ultimo piano c'erano gli uffici del direttore. Dopo il 1990, con i combattimenti, il palazzo è stato gravemente danneggiato. Noi vivevamo nella periferia di Monrovia. Siamo dovuti fuggire perché si trovava sulla linea del fronte. Siamo arrivati qui, abbiamo occupato questa casa», racconta Steven. All'orizzonte, il porto di Monrovia. Sul pavimento, acqua putrida. Alle spalle dell'uomo, rifiuti di ogni genere, immondizia che si innalza verso il cielo, ventilatori arrugginiti, sacchetti di plastica macerati dal sole. Odore di pattumiera e di urina. Ma anche palme nelle fioriere, memoria di una esistenza diversa a cui nessuno sembra più nemmeno fare caso. «Le condizioni di vita sono improponibili. È da anni che attendiamo che qualcuno ci aiuti. Ci sono decine di famiglie, con bambini, e le condizioni igieniche non fanno che peggiorare. Dove sono le Nazioni Unite?». L'uomo non si dà pace. «Non vedo l'ora di andare a votare, eleggerò Gorge Weah, un uomo che conosce i problemi della povera gente. Viene anche lui dalla strada. Non ha mai ucciso nessuno», conclude Steven. Il prossimo presidente della Liberia, chiunque sia, dovrà lavorare molto e in fretta.

A pochi metri da uno dei tanti check-point dei peacekeeper nigeriani che controllano Monrovia, su un cartello storto e rovinato, sopra a un banchetto che cambia dollari americani in valuta locale, qualcuno ha scritto: Time is running out for Liberia (per la Liberia il tempo sta scadendo).

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