REPORTAGE

Il bivio a sinistra del sindacato

Il mondo del lavoro tedesco fra fedeltà alla Spd e richiamo della «Linke-Pds»
CASTELLINA LUCIANA,FRANCOFORTE

La catena di grattacieli di grigio alluminio che disegna il profilo di Francoforte, capitale delle banche tedesche e di quella centrale europea, è spezzata soltanto da un grosso rettangolo rosso: è la sede della Ig Metall, uno dei più potenti sindacati europei. Nei venti piani dell'edificio, i 500 funzionari della centrale metalmeccanica non si nascondono dietro l'ufficiale dichiarazione di neutralità rilasciata dall'organizzazione, come d'abitudine, in occasione delle elezioni politiche: del voto del prossimo 18 settembre parlano anzi volentieri. In merito hanno anche prodotto una serie di `volantoni' destinati agli iscritti in cui mettono a confronto, punto per punto, i programmi dei vari partiti con le posizioni del sindacato, senza fare alcuno sconto, nemmeno al partito di cui pure sono più che collaterali,la Spd. Nell'atrio, accanto ai tanti dazebao che annunciano le infinite iniziative dell'organizzazione - (per la pace, per le energie rinnovabili, per commemorare Chernobyl; i seminari di fine settimana che, sotto il titolo «Lavoro e vita», trattano di donne e storia, di sindacato in Europa, di «creatività» e quant'altro; i programmi delle «ferie di formazione», 5 giorni pagati dall'azienda per contratto da passare in un luogo ameno e apprendere le cose più svariate, una sorta di 150 ore stabilizzate) - sono ben visibili i manifesti che avvisano del confronto fra i diversi candidati della regione e una rappresentanza sindacale che li interrogherà.

Vedetevela con noi

Non è stato sempre così alla Ig Metall, perché in generale si dava per scontato che la stragrande maggioranza avrebbe votato per la socialdemocrazia nei cui organismi dirigenti i sindacati sono del resto ampiamente inseriti. Per questo le scadenze elettorali non destavano curiosità. Qualche scossa ci fu quando, 25 anni fa,comparvero sulla scena i Verdi e la frangia extraparlamentare che proveniva dalle fabbriche si imbarcò nel nuovo partito. (Willi Hosch, che con il gruppo Plakard, alla Daimler Benz aveva avuto un certo successo, divenne persino deputato). E però l'effetto fu di breve durata perché i Verdi apparvero subito assai lontani dalla cultura e dagli interessi della fabbrica. Oggi invece la novità è consistente ed è questo che accende l'interesse per la competizione sindacale: è la lista «Die Linke-Pds» di Lafontaine e Gysi, non ancora un partito ma già un'alternativa elettorale.

Alla Ig Metall, così come del resto nel palazzone accanto dove ha sede la Dgb, la Confederazione, della novità sono investiti tutti: i leader nazionali, perché sebbene riaffermino la loro fedeltà alla Spd, hanno cominciato ad alzare la voce contro il governo rosso-verde e il loro stesso partito; i quadri intermedi, perché in molti hanno deciso che voteranno per la Linke e non pochi hanno anzi accettato di esserne candidati. Nel sito www.wirwaehlenlinks.de (noi votiamo a sinistra), i nomi di chi fa on line la propria dichiarazione di voto sono già migliaia e quelle dei membri del sindacato sono la stragrande maggioranza: IgMetall e Ver.di (il pubblico impiego) soprattutto, ma ora anche molti insegnanti della Gew, i chimici della Ig Bce, gli edili della Ig Bau e così via. Il sindacato, insomma, ne risulta già cambiato e i dirigenti non nascondono l'allarme per la trasformazione in corso.

Il confronto fra il vecchio partito del movimento operaio e quello nuovo che è nato dalle sue stesse costole è aperto. L'ultimo numero di Metall si apre con una lunga intervista del presidente Jurgen Peters proprio su questo tema. Il suo bilancio sull'operato del governo Schröder è duro: «Stringere la cinghia è risultata una pessima medicina - dice, riferendosi ai tagli imposti dalla famosa Agenda 2010. Il malato si è ulteriormente ammalato». E il nuovo partito? «La Spd si è negli ultimi anni spostata al centro ed è evidente che si è scavato un vuoto alla sua sinistra che prima o poi - ne avevo ammonito il partito - sarebbe stato occupato. Che sia avvenuto così rapidamente dimostra solo quanto grande sia la rabbia degli ex iscritti alla Spd. E tuttavia - conclude scettico Peters - bisognerà vedere se, come in altri paesi europei, un nuovo partito di sinistra si stabilizzerà. Non è ancora detto».

Tutti contro le «riforme» di Spd

La rabbia degli ex socialdemocratici è documentata nelle successive pagine della rivista: «aver assunto il punto di vista delle imprese anziché quello dei lavoratori, è questo che mi ha spinto ad abbandonare dopo 40 anni la Spd», dice Peter Kurbjuweit, delegato della Ig Metall a Hameln e candidato della Linkspartei, nel faccia a faccia che lo oppone a Josip Juratovic, membro del Consiglio di fabbrica Audi a Neckarsulm e a sua volta candidato, ma nelle liste socialdemocratiche.

Difficile, tuttavia, sia in questo confronto che in tutte le analisi e comparazioni contenute nelle pubblicazioni sindacali di queste settimane, trovare, fra chi è restato fedele al vecchio partito e chi ha scelto il nuovo, un vero dissenso. Il fatto è che i lavoratori sono tutti scontenti, e quanto li divide non è il gradimento o meno delle riforme introdotte da Schröder, che non sono piaciute a nessuno, quanto le opzioni politiche che meglio possono salvare lo stato sociale tedesco. Per trovare chi difende Agenda 2010 bisogna andare fra gli imprenditori e di piccoli e medi, in Germania, ce n'è una moltitudine. I quali, tuttavia, considerano i tagli apportati a diritti sociali e alle tasse ancora insufficienti e per questo si rivolgono direttamente alla Cdu.

Il lavoro, però, in Germania resta importante e la Spd ha tuttora, nonostante tutto, nel lavoro dipendente il suo ineludibile riferimento. Müntefering, presidente del partito, ha aperto la campagna elettorale assieme a Sommer, presidente della Dgb ( la confederazione sindacale), al cinema Delphi di Berlino dove ha fatto proiettare, in anteprima, un film (sarà a Venezia) sulle conseguenze della globalizzazione: «La morte del lavoratore».

Il cancelliere affronta i delegati

La prima lunga apparizione elettorale televisiva Schröder l'ha dedicata proprio al lavoro e per quasi due ore ha risposto a una platea di operai, molti delegati dei CdF, che saranno pure stati selezionati, ma apparivano comunque incazzatissimi. E - inimmaginabile per noi abituati a veder discutere nei salottini televisivi quasi solo di rapporti fra i partiti - qui si è discusso solo di questioni sindacali: di questo o quel dettaglio del sistema retributivo, dei servizi sociali, dei diritti acquisiti o perduti nella fabbrica.

Incalzato, Schröder ha abbandonato ogni trionfalismo, ha ammesso che le cose non vanno ancora bene e ha insistito nel dire che la Spd aborre il modello americano e non lo adotterà mai.

E' però stato difficile dimostrare che non fosse proprio la cultura liberista a ispirare le sue riforme tese a produrre flessibilità e a dare margini alle imprese nella speranza che il rilancio degli investimenti avrebbe aumentato l'occupazione. Che invece non è aumentata affatto. «E' difficile imporre all'economia - si è difeso il cancelliere - di assumere l'obiettivo della piena occupazione anche a scapito della produttività e della competitività, se no si vuole finire come la Repubblica democratica tedesca» ( quella dell'est). Ma la Germania è finita comunque malissimo: 5 milioni di disoccupati (l'11,6 %), il 38% dei quali a lungo termine; 1.000 posti regolari perduti ogni giorno ( 6 milioni su 23 dal 1991); l'81 % dei tedeschi che dichiara di aver paura di perdere il proprio posto. L'insicurezza dilaga nel paese che è stato il modello della sicurezza sociale e questo ha conseguenze economiche generali gravi.

E' vero infatti che l'economia tedesca viene data in ripresa e anzi l'Economist le ha dedicato euforicamente la copertina parlando di «miracolosa sorpresa», tanto più gradevole se si considera che il Pil del paese è quasi un terzo di tutto quello europeo. Ma all'aumento significativo delle esportazioni (dal 1999 più 150 %), dovuto anche a investimenti nella ricerca e nell'innovazione, ha corrisposto una drammatica stagnazione del mercato interno.

Botte al lavoro

La «cura» schröderiana, riducendo il costo del lavoro (aumentato qui, dal '95, del solo 2,6 % a confronto del 12,6 della media europea); allungando l'orario di lavoro (un occupato ogni due lavora oramai anche il sabato); spingendo il 30% della forza lavoro verso precari lavori part-time ( i «mini-jobs») - ha creato una generalizzata sfiducia che si è tradotta in caduta della domanda. Quel che è accaduto - per dirla con le parole come sempre sincere dell'illustre settimanale inglese, entusiasta del successo tedesco - è che la paura di perdere il posto senza avere più le garanzie di prima «ha rafforzato la mano degli imprenditori e ridotto il potere del sindacato».

Nikolaus Schmidt, che dirige l'ufficio economico della Ig Metall, ammette che la situazione è per il sindacato molto difficile. «Ha pesato - dice - l'aggressione ideologica del pensiero liberista, al di là delle riforme stesse. Nell'ultimo accordo tariffario abbiamo dovuto accettare la clausola della `eccezione aziendale' in base alla quale saranno possibili deroghe al contratto nazionale non più solo, come prima, per specifiche ragioni di crisi, ma anche solo quando si tratti di rendere più competitiva l'impresa. Un indebolimento grave del nostro tradizionale controllo sulle retribuzioni del settore, che evitava ricatti e dunque accordi al ribasso».

Il «regalo avvelenato» di Angela Merkel

Proprio la liceità degli accordi aziendali costituisce uno dei punti caldi dello scontro elettorale. Già c'era stata in questo senso una pressione del governo rosso-verde, ma ora la Cdu ha inserito nel suo programma la cancellazione della legge che rende nulli gli accordi aziendali che non abbiano ricevuto il consenso del sindacato a livello nazionale e li autorizza invece anche quando siano stati avallati dal CdF e da due terzi delle maestranze interessate. In Italia, dove l'articolazione aziendale ha rappresentato una conquista, perché ha dato autonomia negoziale ai lavoratori, una simile posizione è difficile da capire. Ma qui sono insorti tutti e il sindacato ha già raccolto le firme di 35.000 delegati per protestare contro la minaccia democristiana che intende accelerare una generale flessibilità del lavoro. «Non vogliamo il regalo avvelenato della signora Merkel» - ha tuonato Thomas Schlenz, presidente del consiglio generale di tutte le fabbriche del colosso Thyssen Krupp.

Quanto è in atto è un attacco al cuore stesso del sistema di relazioni industriali tedesco e si capisce la preoccupazione sindacale perché già stanno proliferando accordi che si basano su uno scambio occupazione e salario e/o orario. «Fino ad ora ce ne sono stati 450 - racconta Schmidt - anche se non sappiamo esattamente quanti lavoratori siano stati effettivamente coinvolti. Alla Siemens, per esempio, ce ne sono stati due, ma hanno interessato solo 2.300 lavoratori sui 180.000 dell'azienda».

Investita dalla tempesta è anche l'istituzione più cara al movimento operaio tedesco: la «Mittbestimmung», la codecisione cui hanno diritto i CdF attraverso un complesso sistema di rappresentanza negli organismi dell'impresa. Il rischio della degenerazione corporativa e della cooptazione che questa pratica induce è diventato in questi mesi anche più evidente, per molte ragioni: perché è di qui che è venuta la spinta a trovare aggiustamenti locali ma anche perché sono venuti alla ribalta una serie di grossi scandali. Si è infatti scoperto che una sessantina di delegati dei CdF, in particolare della Volkswagen, hanno viaggiato, a spese dell'azienda e insieme ai dirigenti, in esotici e lussuosi luoghi mettendo nel conto anche la visita ai locali bordelli.

La giustificazione (che però non copre il bordello) è stata la seguente: se si deve decidere sulla strategia di aziende che hanno fabbriche sparse per il mondo non si possono ricevere solo informazioni telefoniche, occorre visitare gli stabilimenti, parlare con le maestranze, capire cosa vuol dire produrre in Messico o in Brasile.

Lo scandalo che sta riempiendo i giornali non ha fatto altro che portare allo scoperto un dato che già tutti conoscevano: che i «baroni dei CdF» (così vengono chiamati ), uno ogni 200 lavoratori (ma uno già oltre i cinque addetti), spesso in quel ruolo per decenni e che la legge autorizza a non lavorare e riserva loro un ufficio, finiscono per assimilarsi alle idee e alle abitudini di quella che anzichè controparte è diventata partner. E da cui ricevono indiretti ma molteplici sostegni.

E tuttavia nel sindacato tutti - destra, centro e sinistra - sono insorti in difesa della Mittbestimmung accusando la Cdu di voler usare lo scandalo che coinvolge qualche decina di sindacalisti corrotti per affossare una istituzione che il movimento operaio tedesco considera una conquista storica: fu inserita nella prima Costituzione del dopoguerra, nel '52, ma quasi solo formalmente e perciò dette luogo ad un grande scontro fra Cdu e Spd; fu poi estesa negli anni '70 quando al governo andarono Brandt e Schmidt. «La Ig Metall - grida un comunicato del sindacato - denuncia il tentativo di usare lo scanalo per discreditare il lavoro quotidiano che i rappresentanti dei nostri 90.000 CdF compiono ogni giorno a fianco di milioni di lavoratori». Nei comizi Oskar Lafontaine e gli altri della Linke-Pds reclamano una «Mittbestimmung più estesa».

Nella tempesta indotta dalla esacerbata ricerca di competitività sembra al sindacato tedesco che essere presente laddove si decide sia essenziale. Consapevoli o meno che il loro potere è molto virtuale, non lo vogliono perdere. «Il problema è un altro» - dice la sinistra. «E' che la codecisione ha valore solo se accanto c'è un sindacato combattivo che sostiene la funzione dei delegati. E' proprio questa seconda gamba della Mittbestimmung che in questi anni è mancata». Dopo grandi e incoraggianti manifestazioni nella primavera del 2004, protrattesi in una lunga serie di «lunedì di protesta», è prevalso lo scoraggiamento.

L'indebolimento dipende dalle delocalizzazioni? «La minaccia c'è e viene ampiamente utilizzata dagli imprenditori» - dice Nikolaus Schmidt. «E tuttavia le cifre ci dicono che in realtà in questi ultimi anni ce ne sono state di meno, non di più. Le nostre esportazioni nel settore metalmeccanico sono aumentate di 240 miliardi di euro, mentre le importazioni solo di 156. E dal '99 sono calati anche gli investimenti esteri diretti. A delocalizzare sono le piccole aziende, che producono così effetti sociali devastanti, ma incidono poco sui dati globali.

Perché allora accordi così al ribasso? «Bisogna distinguere. Nel settore auto avevamo accordi molto più favorevoli della media, ora quel che avviene è che si riallineano agli altri. E tuttavia in nessun caso ci sono stati aumenti dell'orario di lavoro: siamo ancora alle 35 ore. Guasti ce ne sono stati nel settore dei servizi delle aziende automobilistiche per effetto dell'outsourcing cui il padronato ha ricorso e cui non siamo stati in grado di resistere. Vittime sono stati il personale delle pulizie, delle mense, della sorveglianza, ecc».

C'è un fatto drammaticamente simbolico da ricordare: il famoso Hartz IV, la riforma che riduce i sussidi di disoccupazione, porta il nome proprio di un ex sindacalista, poi dirigente della Vw su indicazione della Ig Metall. Famoso perché, quando anni fa si verificò la prima grande crisi dell'azienda, mettendo a rischio 30.000 posti di lavoro, lui evitò i licenziamenti facendo approvare da tutti la settimana di quattro giorni accompagnata da una riduzione del salario. Ora, ormai in pensione, è stato posto dal governo rosso-verde a capo della commissione che ha partorito la più impopolare delle riforme di Schröder, per l'appunto la Hartz IV: un complicato sistema che abolisce i sussidi prima quasi infiniti, riducendoli drasticamente in quattro successivi tempi e che obbliga chi li percepisce ad accettare qualsiasi lavoro e retribuzione (anche un euro all'ora) nei settori socialmente utili. E però imponendo ai comuni di pagare loro affitto e riscaldamento. Dovrebbe trattarsi della grande ricetta, già sperimentata in Inghilterra, Danimarca e Olanda. Per ora ha solo creato un disastro sociale ed umano.



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